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venerdì 25 aprile 2025
 
 

Ma di "clasico" c'è solo Leo

27/04/2011  Il sublime calcetto del Barcellona contro la parata di stelle del Real Madrid. Poi, tanto, ci pensa Messi. Da imitare, solo gli stadi senza barriere.

Barcellona e Real Madrid si sono incontrati già quattro volte, in questa stagione, nella sfida detta “el clasico”: 
1) campionato, girone di andata, a Barcellona 5 a 0 per i padroni di casa, e assurta a simbolo di gloria catalana la “manita”, la manina che fa ciao ciao con le cinque dita;
2) ritorno a Madrid, 1 a 1, partita dura;
3) finale di Coppa del Re (la nostra Coppa Italia) a Valencia, 1 a 0 per il Real, Cristiano Ronaldo ai suppplementari;
4) ieri sera a Madrid, prima semifinale di Champions League, 2 a 0 per il Barcellona, che prenota la finale, il 28 maggio a Londra, probabilmente contro gli inglesi del Manchester United , 2 a 0 all’andata in Germania sui tedeschi dello Schalke che aveva eliminato l’Inter (il ritorno martedì proprio a Barcellona, non una formalità ma una conquista possibilissima). 

     La partita è stata ovviamente inferiore alle attese, troppa tensione e troppe durezze, ma non ce l’ha fatta a diventare brutta e noiosa per la classe dei singoli e per gli accidenti di gioco, con il Real ridotto in dieci e Mourinho espulso e chiuso in una gabbia decentrata, impegnato a scrivere pizzini per quelli della sua panchina. Per un lampo breve ed un lampo lungo di Messi la partita è diventata bellissima: due i gol della “pulce” argentina, uno con un guizzo su un cross, l’altro con un lungo veloce perfetto dribbling artistico, maradoniano che ha portato a spasso quattro del Real, il pallone alla fine spedito in rete con un colpo da campione mondiale di biliardo.

    

     QUEGLI STADI SENZA SBARRE...

     Ecco, se Messi avesse giocato nel Real, il Real – che ha “soltanto” Cristiano Ronaldo, un Messi di seconda mano - il Barcellona sarebbe stato battuto. Questo alla fine è il calcio, le squadre mettono insieme la partita, i singoli la decidono. Vista dunque questa partita che ovviamente invidiamo al calcio spagnolo, anche se l’esito complessivo del duello lo priverà di una finale fra due sue squadre, ci dobbiamo domandare se il nostro calcio può trarre qualche insegnamento dal tipo di gioco collettivo e dalle azioni dei singoli.

      Diciamo subito che secondo noi dal punto di vista della tecnica individuale non si può imparare nulla perché, ad alti livelli, nessuno può insegnare niente a nessuno. Se nella scherma il pluricampione olimpico va periodicamente dal vecchio maestro a ripassare l’abbicì o la tavola pitagorica, se nel basket anche Kobe Bryant ripete continuamente i “fondamentali” di quando era ragazzino, nel calcio uno che si azzardasse a perfezionare lo stop di Balotelli verrebbe squartato dallo stesso giocatore, uno che lo facesse con Totti verrebbe deriso dalle moltitudini.

     Dicendo di tattica, il Barcellona gioca abitualmente un sublime calcetto, sia pure con abilità enorme dei giocatori: tanta orizzontalità, l’affondo di rado, roba inimitabile, anche se così facendo ha perduto –perché Messi si è dimenticato di segnare - la semifinale e probabilmente anche la Coppa l’anno scorso contro l’Inter (di Mourinho) pratica e puntuta. E’ una eredità, questo gioco, di Cruyff, il grande olandese, prima come giocatore poi come allenatore del Barça: tanti passaggi orizzontali, poi lui, il Messi d’antan, che guizzava avanti, o faceva guizzare un suo clone.

     Quanto al Real Madrid, la sua tattica migliore consiste nel lasciare che i suoi campioni si esprimano liberamente: e il club ingaggia appunto gli assi più reputati, da Kakà a Cristiano Ronaldo, da Benzema ad Adebayor, e non pensa (forse a ragione) che possa esistere qualcuno che dica di no al suo fascino e ai suoi soldi, anche se poi deve stare in panchina (Kakà) per sovrabbondanza di piedi troppo buoni e poco pratici. 

     I due allenatori, Guardiola e Mourinho, non sono assolutamente due professori di calcio. Sono due motivatori, ecco, e secondo noi tutti gli allenatori sono tali, e basta, quando pure ce la fanno: altro che maestri. Come motivatore Mourinho è il primo al mondo, il più intelligente, il più perfido. Ha vinto eccome nella rituale polemica prepartita, con battute, stimoli, proclami eccetera, ha perso la gara di recitazione sul campo. Nessuno degli altri presunti maghi della panchina può comunque avvicinarlo, e infatti  il nostro calcio e il nostro giornalismo calcistico sono orfani di lui. 

     Casomai possiamo imparare, soprattutto dal Barcellona, il valore del vivaio:  ma ci vogliono umiltà, tradizione, persino un pizzico di sciovinismo calcistico (il Barcellona è la Catalogna tutta contro Madrid e la Spagna, non solo una squadra contro il Real). Pure il Real ha un gran bel vivaio: che però patisce i continui arrivi di assi cresciuti altrove, intanto che al vertice il club ancora sconta i favoritismi del franchismo alla squadra della capitale.

     Sono comunque tematiche non nostre. I vivai del calcio italiano, come anche di quello francese, sono in Sudamerica, in Africa, comodi e generosi.   E adesso proviamo anche a vergognarci un poco. Perché? Perché – ve ne siete accorti? – non solo il calcio inglese, ma anche quello spagnolo, teoricamente posto di passioni spinte e calori latini al cubo, non prevede negli stadi recinzioni per tenere gli spettatori lontani dal terreno di gioco: e non ci sono mai invasioni, neanche questa volta nonostante la tensione altissima e non pochi episodi del genere cruento e la sconfitta dei ragazzi di casa.

     Immaginiamo un match Inter-Milan, da noi, o Juventus-Roma, o Napoli-Palermo senza  recinzioni. Ecco, forse si potrebbe partire da qui per una sana imitazione.

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