Ogni Papa ha il proprio stile di comunicazione, frutto del suo personale carisma; ma con alcune linee generali comuni: tutti i Papi fanno largo uso dell’italiano. L’italiano aiuta a schivare il rischio della globalizzazione, intesa come omologazione rispetto alle forze che dominano economia e finanza nel mondo. La modesta potenza politica dell’Italia, Paese di pace, si accompagna al prestigio di un’antica cultura che ben si adatta al valore ecumenico della Chiesa di Roma. L’italiano affianca dunque il latino, anzi gli subentra nelle comunicazioni orali.
Ciò non accade solo quando un Pontefice parla in Italia. Tutti i Papi hanno utilizzato questa possibilità, e Francesco in modo speciale. Qualche volta il discorso all’estero è stato condotto nella madrelingua spagnola: così nelle Filippine, all’Università di Santo Tomas (Manila) il 18 gennaio 2015: il Papa ha salutato in inglese, poi ha scherzato sul fatto che quando parla in spagnolo lo fa in modo più naturale. Il discorso si è svolto in spagnolo con traduzione immediata in inglese.
Nelle Filippine, si noti, lo spagnolo è stato per secoli una lingua molto nota, e anche ufficiale: lingua di cultura fino agli anni Settanta del Novecento, ora è praticamente in estinzione. Il Papa ha dunque scelto una lingua familiare, un tempo molto diffusa in quel territorio. In Svezia, nel novembre 2016, papa Francesco ha commentato il Vangelo delle Beatitudini in spagnolo (e la Messa a Malmö è stata in latino). Però il 30 settembre 2016, nel viaggio in Georgia, ha parlato in italiano; altrettanto ha fatto a Cracovia, in Polonia, alla Giornata mondiale della gioventù, alla fine di luglio 2016, e in Armenia, nel giugno 2016.
Nel campo profughi di Moria, sull'isola di Lesbo, Grecia, il 16 aprile 2016 si è rivolto in italiano ai migranti, seppure con la traduzione immediata in inglese. Ha parlato in italiano in Africa nel novembre 2015, pur con qualche parola della lingua locale e con larghi squarci di preghiera in francese. Nel febbraio 2016, in Messico, ha ovviamente usato lo spagnolo. Insomma: l’adozione della lingua o di più lingue è soggetta a valutazioni di opportunità, tiene conto della situazione reale, ma l’italiano mantiene comunque una posizione di tutto rispetto. È ormai noto, infatti, che il Vaticano e i Papi sono, in assoluto, la più forte spinta all’internazionalizzazione dell’italiano: questo basterebbe ad assicurare al Papa il diritto a essere nominato Accademico onorario della Crusca, perché sostiene l’italiano meglio di cento professori.
Quanto alla forza della sua comunicazione, il suo stile personale, assolutamente antiretorico, colpisce per la carica di spontaneità. Tutti i Papi di nascita estera, dal polacco Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II, al tedesco Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, hanno utilizzato l’italiano, talora scherzando con i propri errori: si rammenti il famoso «se mi sbaglio mi “corrigerete”» di Wojtyla, al momento della sua elezione, quando disse anche “la vostra… la nostra lingua italiana”, per rivendicare la sua inclusione nella nostra lingua nazionale. Ma Francesco ha introdotto una speciale originalità nell’uso del nostro idioma.
Vediamo perché. Un libro pubblicato dal linguista siciliano Sgroi (Libreria Vaticana, 2016) ha già provveduto a discutere le cosiddette “libertà” linguistiche di papa Francesco, in genere esito di calchi sullo spagnolo, a parte la concessione al sostrato linguistico familiare nel caso del celebre verbo «la corruzione “spuzza”», che riprende la forma piemontese con la esse “rafforzativa”. Tra questi calchi, possiamo ricordare il verbo “misericordiare” per tradurre il suo motto, tratto da un passo latino di Beda il Venerabile riferito all’incontro tra il Messia e il pubblicano Matteo («Miserando atque eligendo», Gesù lo guardò “con sentimento di amore e lo scelse”), o i verbi “mafiarsi” e “nostalgiare”.
Ancora, possiamo citare l’intervista telefonica a Tv2000, nel novembre 2015, quando Francesco disse di essere «commosso», intendendo però di essere «scosso», «dolorosamente colpito». Si tenga presente che i calchi dello spagnolo, o eventualmente i frammenti del piemontese della propria famiglia, non guastano la spontaneità, anzi la rafforzano, cosa che non potrebbe avvenire se il discorso fosse formalmente ineccepibile, ma freddo. La spontaneità si è vista fin dalla sorridente semplicità delle prime parole pronunciate da Bergoglio dal balcone di Piazza San Pietro, subito dopo l’elezione: «Fratelli e sorelle, buonasera», e poi il riferimento ai «fratelli cardinali » che sono andati a prendere il nuovo Papa «quasi alla fine del mondo».
Il Papa, dunque, ama l’ironia e il sorriso, predilige una comunicazione ricca di esempi, di apologhi, capace di raggiungere anche chi non è colto; ma, all’occasione, il tono si fa indignato, di aperta e ferma condanna: il caso della «corruzione “spuzza”» ne è esempio evidente, e allora si vede bene che il dialettismo ha qui assunto la funzione di una forte marca linguistica popolare, una sorta di trasparente neologismo impiegato contro il male.