Da oltre mille anni i monaci di Camaldoli vivono in simbiosi con la foresta che li ospita, tanto che la stessa congregazione fondata da san Romualdo deve il suo nome al chiaro di bosco aperto tra gli alberi di faggi e di abeti bianchi (campus amabilis) dove, ancora oggi, sorgono l’eremo e il monastero. Tra essi, l’archivista e bibliotecario della comunità Claudio Ubaldo Cortoni è il “padre spirituale” del progetto La Via delle Foreste (laviadelleforeste.it), un ritiro di uno o più giorni nel Parco nazionale delle foreste casentinesi ideato dall’associazione La grande via, per sperimentare il risveglio dei sensi attraverso il movimento, il contatto con la natura, l’alimentazione e la meditazione. Un programma di attività sensoriali, sotto la supervisione di medici, guide forestali ed esperti della nutrizione, del movimento consapevole e della ricerca interiore, che quest’estate guiderà i partecipanti alla scoperta di quell’indissolubile legame - materiale, spirituale e di “cura” reciproca - che da sempre lega i monaci camaldolesi e le foreste casentinesi. Come ci racconta padre Claudio Ubaldo Cortoni in quest’intervista esclusiva.
Padre Ubaldo, cosa rappresenta la foresta nella vita spirituale camaldolese?
«Per i monaci la foresta ha sempre rappresentato sia una fonte di sostentamento sia un luogo dello spirito. In un resoconto del 1400, il camaldolese Agostino Di Portico racconta le processioni che partivano di notte dall’eremo e, attraverso il fitto del bosco, arrivavano all’alba sui promontori dai quali si può scorgere l’intera vallata. È nello stesso tempo il luogo pericoloso da attraversare, il deserto e il racconto delle sue tentazioni e degli incontri che si ritrovano nei Padri della Chiesa (il deserto in Occidente si trasforma simbolicamente nella foresta), e il luogo dove la persona conosce e cura sé stessa. Ed è altrettanto interessante notare come, in due scrittori seppur molto distanti e diversi tra loro — Dante Alighieri e Virginia Woolf — l’attraversamento della foresta (la “selva oscura” della Divina Commedia e la “foresta vergine” che c’è in ciascuno di noi citata dalla Woolf) rappresenti di per sé stesso un processo di guarigione dalla “malattia”. Perché, nella foresta, non si è mai soli».
In vent’anni trascorsi nella comunità monastica di Camaldoli, che ruolo svolge la foresta nel suo quotidiano?
«È il momento in cui recupero il rapporto con me stesso e con la natura, ritrovando il mio equilibrio. Per me la foresta è la libertà di sentirmi in comunione con “qualcosa”. Quando m’incammino da solo non uso parole umane ma ascolto e mi perdo, lasciandomi interrogare da ciò che vedo e sento, dagli odori, perché nella natura non c’è niente di “fuori posto” e, piano piano, tutti i pensieri, gli affanni e le preoccupazioni diventano silenzio. A ogni stagione, qui, corrisponde una suggestione: la limpidezza dell’aria tersa dell’inverno, la tenerezza dei germogli di primavera, la confusione della vita pregna d’insetti dell’estate e la croccantezza delle foglie durante l’autunno. E poi c’è quell’eterno stupore, all’alba tra le 5 e le 5.30 del mattino, nell’uscire dalla cella quando fuori è ancora buio e accorgersi, lungo il tragitto a piedi verso la chiesa, della volta stellata».
Da ragazzo, che rapporto aveva con la natura?
«Da bambino più che a vivere in uno spazio costruito, cittadino, sono stato abituato ad “abitare” il silenzio: nella casa di campagna di mio padre e a Gubbio dove, in centro al tramonto, sentivo i rondoni fischiare. Ho trascorso le estati a passeggiare sulle coste del Monte Ingino, con l’aria che mi tagliava il viso, accarezzando la sensazione di essere nello stesso tempo tutto e nulla con la natura. L’Umbria è una delle terre con il maggior numero di eremi e lì la solitudine e il silenzio hanno dimensioni fortissime. Durante gli studi a Roma e tuttora, insegnando Storia della Teologia presso il Pontificio ateneo Sant’Anselmo, ho sempre trovato la città “stancante”, per lo spirito e il corpo: seguire il ritmo del processo produttivo e intellettuale (e non quello naturale e della persona) rende ambigui persino la parola e il pensiero che, se nati dal silenzio, dalla contemplazione e dalla calma interiore, hanno uno spessore molto più esistenziale».
Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ e il cardinale Ravasi nel suo ultimo volume Il grande libro del Creato. Bibbia ed ecologia hanno posto l’attenzione sul tema ecologico. Qual è, in proposito, la sua visione da monaco camaldolese?
«In un saggio a cui sono particolarmente affezionato e che, per sua stessa ammissione, insegnò a Gandhi il significato della nonviolenza, Il regno di Dio è in voi, Lev Tolstoj scrive un’importante verità: se l’uomo non torna a toccare la terra con le mani, a essere contadino e a entrare in contatto fisico e spirituale con la fatica e la gioia di appartenere all’opera del creato, non sarà mai salvo. Perché la natura non può essere pensata ma soltanto vissuta. Noi oggi viviamo come se il creato non esistesse e abbiamo spostato i nostri equilibri tanto da non renderci più conto di “dove” e “cosa” siamo, mentre comprendere i ritmi della natura è essenziale per capire quelli del nostro cuore. Ma sono fiducioso nelle nuove generazioni, che hanno “fame” di vita».
Che consigli darebbe a un “profano” che si inoltra per la prima volta nella foresta?
«Entrare in silenzio, non portare “argomenti” propri e soprattutto restare con la capacità che hanno i bambini di stupirsi e afferrare il momento, lentamente: la foresta è “qualcosa” che cattura la persona ma ci vuole un po’ di tempo prima di rendersi conto della sua grandezza, scoprire sé stessi e sentirsi in armonia con essa. E non è un momento duraturo, una conquista durevole nel tempo, piuttosto un lavoro interiore che va esercitato per tutta la vita».
Foto di Clara Vannucci