A Boston è già arrivato il
primo freddo e, come
tutti gli anni elettorali,
attorno alle villette, tra
mucchi di foglie multicolore
cadute, gli addobbi di
Halloween si mescolano
ai cartelli di propaganda
politica da mettere in giardino. Molti
gli “Io sto con Hillary” un po’ meno i
trumpiani “Rendiamo l’America di
nuovo grande”, e in questo democraticissimo
feudo della famiglia Kennedy
non potrebbe essere altrimenti.
Tuttavia, allontanandosi di qualche
miglio dalla città – sede degli atenei
più famosi al mondo, da Harvard al
Mit – la musica cambia d’improvviso.
«Durante le primarie facevo
il tifo per Bernie Sanders, ma non
sono di quelli duri e puri, dunque
in mancanza di alternative ho votato
per la Clinton», ammette Alan,
26 anni, impiegato in uno dei tanti
centri privati di ricerca biotecnica
spuntati come funghi attorno
alle università. «Qui, sia al lavoro
sia fuori, sono in tanti a pensarla
come me, ed è quasi impossibile
trovare qualcuno che non voti democratico,
ma quando torno a casa
dai miei a Fitchburg, appena un’ora
di macchina verso Ovest, tra Clinton
e Trump diventa un pareggio».
ELEZIONI USA: "UNA DIVISIONE NETTA"
Con queste poche parole
pronunciate tra i denti, nel vento
gelido che spazza la collina del municipio
di Somerville (uno dei Comuni
dell’hinterland che per due settimane
permette di votare anticipatamente)
Alan riassume l’America in questa
strana e velenosa vigilia elettorale
meglio di tanti sedicenti “esperti” che
da mesi affollano l’etere americano.
Innanzitutto, la divisione, netta
(che nel piccolo ma politicamente
importantissimo Stato del Massachusetts
ricorda in scala quella nazionale),
tra la capitale Boston, città
cosmopolita, acculturata e lanciata
verso la new economy, toccata solo “di
striscio” dalla crisi e una provincia dal
glorioso passato manifatturiero (tessile
in questo caso) più o meno riconvertita
ad altre attività, che probabilmente
non si riprenderà mai del tutto.
Poi il proverbiale, montanelliano
voto con il naso turato, ormai un
leitmotiv di questa tornata elettorale,
egualmente diffuso e ammesso dai sostenitori
di entrambe le parti.
«Con tanti repubblicani buoni che
c’erano, abbiamo perso un’occasione
d’oro: sono molto deluso dal mio partito!
» sbotta Enrico Domingo, palermitano,
consulente finanziario 45enne,
convinto conservatore che fin dall’inizio
della sua avventura americana,
vent’anni fa, si riconosce nella filosofia
del Partito repubblicano. Tra i suoi beniamini,
Mitt Romney, (tra l’altro suo
vicino di casa nel ricco sobborgo di
Belmont) battuto da Obama nel 2012, e
il presidente della Camera dei Rappresentanti
Paul Ryan, entrambi pubblicamente
dissociatisi dall’imprevedibile
magnate newyorchese. Ma Enrico
tiene duro: «In mancanza di meglio io
voterò comunque per Trump. La speranza
è l’ultima a morire».
Ma la crisi del Partito repubblicano
non preoccupa solo la destra. «Ho
votato tutta la vita per i democratici
e non avrei mai pensato che un giorno
sarei arrivata a preoccuparmi della
salute del partito opposto», riflette
Ann Goodsell, redattrice universitaria
sulla sessantina, perfetta rappresentante
per professione e personalità
di un quartiere – Cambridge
– talmente di sinistra da essersi guadagnato
il nomignolo di “Repubblica
Popolare”. «In democrazia un’opposizione
solida ci vuole. Certo che le elezioni
le vinciamo noi, ma se il sistema
perde di stabilità è una sconfitta
per tutti».
Effettivamente il rischio che
Donald Trump, anche da sconfitto,
scombini ulteriormente le carte
c’è, specie dopo aver tacciato ripetutamente
il sistema come “truccato” e
ventilato nell’ultimo dibattito tv l’intenzione
di non accettare i risultati
del voto. La sensazione è che votare
per Trump sia una di quelle classiche
cose che si fanno ma non si dicono.
“Pagliaccio” sembra essere l’aggettivo
più gettonato nei bar, i barbieri, i negozi
del North End, lo storico quartiere
italiano. Ma Giuseppe Giangregorio,
farmacista da sessant’anni, che conosce
tutti e con tutti da sempre parla di
politica, parlando a bassa voce nell’angolo
del suo negozio dedicato ai giornali
italiani mi confida: «Ti assicuro
che qui, specie tra gli uomini, sono in
tanti a non sopportare la Clinton, a
considerarla una bugiarda e un’incapace,
e molti, almeno la metà alla fine
voteranno per Trump».
Foto Carlos Barria/Reuters - Jonathan Ernst/Reuters