«Finire in strada è un attimo: un investimento andato male, un lavoro perso, una separazione, l’anziano cui si stava badando che muore, una malattia, una dipendenza... È questa la
cosa che colpisce di più quando ci si avvicina a queste persone: si capisce che potremmo essere noi al loro posto. Che basta un niente per precipitare. E che serve tanto invece per risalire. Perché chi comincia a vivere per strada, difficilmente ne esce. La strada ti inghiotte».
Davanti al servizio mensa di via Flaminia Jessica e Carmen partecipano alla Seconda ricerca nazionale sui senza dimora. Non sono solo numeri e statistiche le persone in coda per il pasto quotidiano. Anche se i numeri servono per capire spostamenti e stili di vita, per adeguare i servizi alle necessità di chi vive senza casa.
Promossa dal Dipartimento sull’inclusione sociale del ministero del Lavoro – in collaborazione con la Caritas italiana, la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (Fio.psd) e l’Istat– la ricerca, che ha battuto a tappeto 750 servizi sparsi in 158 Comuni italiani (per un totale di 5.400 interviste), si propone di offrire una fotografia delle persone che oggi si trovano in situazione di estremo disagio. Continuiamo a dare un volto ai numeri.
In coda sul marciapiedi di via Flaminia, un signore “insospettabile” legge il giornale stringendosi nel cappotto blu. Un’altra signora parla del più e del meno con la sua compagna di fila. Ma non hanno molta voglia di raccontare la loro storia.
Le donne si organizzano meglio
Cristina, romena di 53 anni, si presta volentieri all’intervista. Due figlie adolescenti lasciate in patria. Alle quali non raccontare la propria situazione difficile del momento. Una mano dalle amiche per qualche notte al coperto, un impegno del Comune per un posto letto in un residence.
Le donne riescono a organizzarsi meglio, fanno più gruppo e si passano più velocemente la voce per ritrovare lavoro. Molte di loro, occupate come badanti, sono finite in strada dopo qualche anno di vita “normale”
nelle case di quanti hanno assistito fino
alla morte. Qualcuna ritrova un lavoro,
qualcun’altra invece passa di dormitorio
in dormitorio. Ma cedono meno degli
uomini all’alcol e alla disperazione.
«La maggioranza dei senza dimora»,
spiega il coordinatore dell’indagine Michele
Ferraris, «hanno accesso ai servizi:
le mense, le docce, i dormitori. Per
quel quasi 10 per cento che non riusciamo
a intercettare abbiamo pensato, in
questa indagine, di affidare un focus
specifico alle unità di strada che operano
a Torino. Quello che comunque sta
già emergendo, come era accaduto anche
nella scorsa indagine, è che, più che
altre forme di assistenza, è prioritario
trovare una sistemazione abitativa. Solo
così si recupera il sonno, la propria dignità,
la speranza di poter ricostruire la
propria vita».
Un circolo vizioso
Lo sa anche Paolo,
restauratore d’arte finito in strada dopo
una frode di cui è stato vittima. «Quando
si dorme per strada o in alloggi di
fortuna è difficile presentarsi in modo
dignitoso a un committente, avere la testa
per applicarsi al lavoro. Si entra in
un circolo vizioso che ti fa precipitare
sempre più in basso». Tra gli italiani,
sempre più di frequente c’è chi si allontana
da casa «per non pesare con la mia
malattia sul resto della famiglia». Dopo
l’intervento Luigi è stato poco a casa. E
oggi, con la sacchetta per la raccolta delle
urine nascosta in una busta, vive per
strada «per non dare fastidio a mia moglie
e ai miei figli».
Il giorno più brutto è la domenica,
quando a Roma sono aperte solo le
mense della Caritas e pochissime altre.
E i mesi più difficili quelli invernali. Il
gelo li raggiunge anche nei sotterranei
della metropolitana che il Comune lascia
aperti proprio per l’emergenza freddo.
Quest’anno, a scaldarli nel corpo e
nell’anima, ci saranno anche i sacchi a
pelo che papa Francesco ha fatto distribuire
nel giorno del suo compleanno.
Un gesto che li fa sentire considerati.
«Perché è anche questo che molti di loro
cercano», dicono i volontari che si occupano
delle interviste: «Vogliono che
gli altri sappiano che ci sono, vogliono
non essere più invisibili».