“La salute con l’anima” è lo slogan che accompagna la testata di BenEssere. In questa rubrica dedicata a ricerche mediche di frontiera, l’anima rimane in secondo piano: di solito, parliamo di nuove molecole terapeutiche, di tecniche diagnostiche avanzate, di scoperte nei campi della genetica, dell’oncologia, delle malattie degenerative... Questa volta non sarà così. Parleremo di una terapia “soft”: la cura del sorriso. Parleremo del benessere che deriva dall’esposizione all’umorismo, dalla disponibilità a cogliere il lato divertente della vita.
È una forma di medicina recente, ancora da codificare, guardata con un certo scetticismo dalla medicina “hard” fondata sui farmaci e sulla loro chimica. In realtà, anche la terapia del sorriso ha la sua chimica. Divertirsi per una situazione comica, una barzelletta, una bonaria presa in giro, ridere e far ridere, oltre a migliorare l’umore, attiva la circolazione del sangue, tonifica il battito del cuore, dilata i polmoni e libera endorfine, le molecole che stimolano nel cervello i centri del piacere. Per questo, la terapia del sorriso attenua la percezione del dolore, funzionando come un anestetico naturale. Più in generale, è dimostrato che una visione positiva dell’esistenza potenzia il sistema immunitario, che invece si deprime se ci si lascia trascinare dal pessimismo. Una ricerca canadese ha confermato che il buon umore difende dalle infezioni, determinando una minor riduzione dell’immunoglobulina A. Uno studio su persone sofferenti per broncopneumopatia cronica ostruttiva ha provato che le risate migliorano la loro capacità respiratoria. Secondo un pioniere della cura del sorriso, lo psichiatra William Fry, professore all’Università di Stanford, cento risate al giorno avrebbero sul fisico l’effetto tonificante di dieci minuti di vogatore. L’esperienza di terapia del sorriso più consolidata è quella degli ospedali infantili. La iniziarono negli Stati Uniti Patch Adams, un medico clown, e Michael Christensen, clown professionista. Piccoli pazienti con malattie più o meno gravi ne traggono benefici psicologici evidenti, che spesso si sono tradotti in una maggiore efficacia delle cure farmacologiche. La terapia del sorriso ha avuto poi successo in Francia, Spagna, Regno Unito, Svezia, Paesi Bassi, Germania, Sudafrica, Nuova Zelanda e, più ancora, in Italia. Nel nostro Paese agiscono ben seimila clowndottori, in parte volontari e in parte professionisti. Manca ancora una regolamentazione, ma nella Regione Lazio sta facendo il suo iter una legge per codificare questi interventi. La formazione di clowndottore comporta un corso di 150 ore e continui aggiornamenti. Esistono anche master universitari. Le discipline dei corsi comprendono psicologia, pedagogia, umorismo, sociologia dei luoghi di cura, improvvisazione teatrale, prestidigitazione, musica e nozioni di neuroendocrinoimmunologia e di gelotologia (lo studio del fenomeno del ridere). Dagli ospedali infantili, la terapia del sorriso si è estesa a case di riposo per anziani, orfanotrofi, a centri di assistenza, di riabilitazione e di accoglienza per i profughi.
Ci sono due tipi di sorriso. Il primo è quello volontario: sorridiamo in modo consapevole perché riteniamo che la situazione sociale lo richieda, per esempio perché stiamo rivolgendoci alla commessa di un negozio o chiediamo una informazione. Il secondo tipo di sorriso è solo in parte sotto il controllo della volontà, la sua origine è di natura spontanea e associata a meccanismi fondamentali per la sopravvivenza: è il sorriso del bambino alla mamma che lo allatta, degli innamorati che si guardano in silenzio, degli amici veri quando chiacchierano in una piacevole intimità, dei coniugi anziani legati dall’affetto e dalle esperienze di una vita intera.
Il viso umano ha 36 muscoli. Nel sorriso spontaneo ne sono coinvolti 12 in modo diretto (due che sollevano i lati della bocca, due che sollevano il labbro superiore, due che agiscono sulla parte del viso intorno agli occhi, due che ritraggono lievemente le labbra e due che sollevano gli zigomi), ma anche gran parte degli altri muscoli facciali viene coinvolta in modo indiretto. Nel sorriso volontario, lavorano solo tre coppie di muscoli: quelli delle labbra e degli zigomi. Insomma, nel sorriso volontario sorridiamo con la metà inferiore del volto, nel sorriso spontaneo con tutto il volto, e la cosa più importante è che sorridiamo, per così dire, con gli occhi. Gli uomini politici sono specialisti del sorriso volontario (si pensi a Silvio Berlusconi), un esercizio nel quale riescono più o meno bene. Non c’è, invece, una “tecnica” per produrre il sorriso spontaneo, tant’è vero che non è neppure possibile trattenerlo, come succede con il rossore in viso o con le espressioni di disgusto. Sono state classificate venti varietà di sorrisi volontari, mentre c’è un solo tipo di sorriso spontaneo.
I neuroscienziati hanno indagato sui due tipi fondamentali di sorriso. Come ha riferito il biologo Edoardo Boncinelli in una lectio magistralis che ha tenuto all’Università di Palermo qualche tempo fa, il sorriso volontario è “corticale”, cioè sotto il completo controllo della corteccia cerebrale, la parte più recente ed evoluta del cervello, dove si trovano anche le funzioni del linguaggio, i meccanismi della logica e del pensiero razionale. Il sorriso spontaneo, viceversa, è generato nella regione sottocorticale, una parte del cervello più antica, dalla quale dipendono l’emotività ma anche, a un livello più profondo, automatismi come il senso della fame, l’attrazione sessuale e le funzioni automatiche come la respirazione e il battito cardiaco. Ovviamente, zona corticale e sottocorticale sono comunque fortemente interconnesse.
Entrambi i tipi di sorriso hanno un ruolo importante nella vita quotidiana. Il sorriso volontario predispone rapporti interpersonali positivi ed è uno strumento che favorisce la vita sociale. Il sorriso spontaneo agisce a un livello emotivamente più forte e ha un significato evolutivo: di fronte a un sorriso spontaneo (che, ricordiamolo, coinvolge i muscoli intorno agli occhi), scompaiono le reazioni di indifferenza o di aggressività e scattano sentimenti di solidarietà empatia, desiderio di aiutare. Il sorriso di un bambino induce l’adulto a prendersi cura di lui, proteggerlo, nutrirlo. È probabile che in tutte queste reazioni entrano in azione i “neuroni specchio” scoperti da Giacomo Rizzolatti e dal suo gruppo dell’Università di Parma.
In terapia, è più efficace il sorriso spontaneo, ma a questo punto il problema si sposta e la domanda diventa: come è possibile innescare il meccanismo comico o umoristico? La scienza sa ancora poco sul comico e sull’umorismo. Il comico scaturisce da situazioni paradossali e impreviste che non abbiano però conseguenze gravi per i protagonisti (si pensi alle disavventure di Stanlio e Ollio). L’umorismo è qualcosa di più sottile, presuppone un’affinità culturale, la capacità di creare collegamenti tra concetti lontani, di giocare con le parole. In entrambi i casi, però, alla base c’è sempre una incongruenza che viene svelata all’improvviso, mentre i precedenti portavano in una direzione diversa. L’incongruenza emerge il più delle volte dal ribaltamento della prospettiva sulla vicenda in questione. L’ironia, il nonsense, la satira sono declinazioni diverse dell’umorismo, una dote che le aziende dovrebbero coltivare tra i propri dipendenti, perché facilitano i rapporti di lavoro e rendono le persone più disponibili e creative. Proprio come la comprensione di una battuta o di una barzelletta, anche le soluzioni creative derivano spesso da un rovesciamento del punto di vista.
La rivista Nature Neuroscience ha pubblicato di recente una rassegna della letteratura scientifica sull’umorismo. Risulta che, all’origine, ci sono due processi mentali, uno emozionale e uno cognitivo. In un fatto o in testo umoristico, cioè, la funzione cognitiva ha il compito di rivelare l’incongruenza e di risolverla cambiando la prospettiva; il processo emozionale serve a immaginare la situazione che la vicenda umoristica ci presenta. In queste operazioni, sono coinvolte molte parti del cervello: le tecniche di imaging cerebrale (risonanza magnetica, tomografia a emissione di positroni, elettroencefalografia) mettono in evidenza la complessità della reazione mentale all’umorismo. Partecipa anche l’amigdala, una delle parti del cervello più antiche, la stessa che rivela le minacce e che interviene nella nutrizione. Il ruolo dell’amigdala nel caso dell’umorismo non è specifico: valuta la rilevanza dello stimolo comico e, se coglie una incongruenza, ne delega la risoluzione ad altre parti del cervello: la corteccia visiva e uditiva, la corteggia prefrontale, la corteccia cingolata, la giunzione temporo-parietale. Il processo emozionale implica, invece, il sistema dopaminergico, l’area tegmentale ventrale e altre ancora. La capacità di interconnettere parti del cervello lontane tra loro favorisce l’esercizio attivo e passivo dell’umorismo: non a caso l’autismo, la schizofrenia e la depressione maggiore non permettono di apprezzare il sense of humor, né di rilevare le situazioni comiche.
L’effetto finale di uno spunto umoristico è il sorriso di tipo spontaneo, detto anche “sorriso di Duchenne”. Che cosa succeda esattamente nel cervello nell’esperienza umoristica, però, non si sa ancora: risonanza magnetica e tomografia a positroni non hanno una risoluzione temporale e spaziale sufficiente per cogliere un fenomeno che è pressoché istantaneo e, forse, si origina in una piccola regione del cervello. Nuovi sistemi di imaging, come la spettrografia funzionale nell’infrarosso, potranno forse chiarire come stanno le cose. A quel punto la terapia del sorriso diventerà meno empirica. È questo l’obiettivo a cui tende la Federazione nazionale dei clowndottori, presieduta dallo psicologo Alberto Dionigi, docente all’Università di Bologna.