Si tratti di Tv o di carta stampata, è il giornalista a guidare l’uomo della strada, dentro il mistero del delitto e del processo. Abbiamo chiesto a Piero Colaprico, cronista di nera e giudiziaria a Repubblica, nonché giallista di successo, di condurci dietro le quinte del suo lavoro.
I tempi della giustizia sono notoriamente lunghi, quelli
dell’informazione sempre più brevi. Si riesce a conciliarne le esigenze
in qualche modo?
«Le cose sono cambiate dal 1989 con il nuovo codice di procedura penale.
Finché l’indagine è stata a lungo segreta di quella fase si parlava
pochissimo, il clou della cronaca era il processo. Oggi è la fase di
indagine a farsi più appetibile per il cronista: è quella in cui
arrivano le notizie, magari degli arresti, ma anche quella in cui le
garanzie sono minori. Mentre il processo si segue poco: si pensi al caso
di Garlasco, l’indagine va in prima pagina, il processo magari in
decima con pezzi più brevi. Però è anche vero che si sono moltiplicati i
mezzi di informazione cui attingere, per cui chi vuole seguire nel
tempo quello che accade ha più possibilità che in passato, il problema è
che spesso chi si lamenta di quello che non sa, non fa il minimo sforzo
per saperne di più».
La velocizzazione progressiva del sistema mediatico, siti,
video, twitter, ha complicato il lavoro del cronista di nera e
giudiziaria?
«Molto dipende dal cronista, direi che è diventato più semplice per il
giornalista esperto che sappia mettere le mani e più complicato per chi
non è esperto. Si nota di più la differenza tra esperti, inesperti e
“non giornalisti” che al di là delle apparenze manipolano sapendolo
l’opionione pubblica, dandole in pasto velocemente verità parziali
difficili da smentire».
Al cronista di nera spesso si rimprovera la morbosità, è una necessità o si può evitare?
«Premesso che la responsabilità dell’eccesso di sangue va divisa in due
tra il giornalista e il suo direttore o superiore, credo che nel nostro
mestiere l’individualità delle persone sia ancora forte. Se tu tratti
tutte le persone come se fossero persone con cui hai un rapporto, sarai
un cronista che riesce a raccontare tutto in modo da essere il meno
possibile offensivo. Ci sono però alcuni che ritengono l’essere umano
materia inerte e fanno cose di cui prima o poi spero si vergognino,
perché il dolore che noi arrechiamo soprattutto alle famiglie delle
vittime è difficilmente sanabile. E quando poi torni ad avere a che fare
con queste persone il modo con cui ti guardano è la misura che ti fa
dire se hai fatto il giornalista come si deve o se l’hai fatto in
maniera spietata e volgare».
E in giudiziaria, dove il segreto normalmente è a tutela, non
della privacy come si dice, ma delle indagini, premesso che le notizie
non hanno gambe, c’è un criterio che ti fa decidere come dire le cose
che sai?
«L’unico caso in cui mi sia capitato di non scrivere quello che sapevo è
stato quando c’erano ostaggi in mano ai sequestratori. Se fai il
cronista devi stare alle regole della tua tribù, se vieni a conoscenza
di una notizia scrivi. Poi certo può esserci una modulazione: una
notizia importante si dà e subito, se sai che hai una notizia secondaria
che non aggiunge nulla di sostanziale al lettore ma lede un’indagine
puoi anche decidere di tenertela per qualche giorno. Ma nessun tipo di
censura può intervenire in presenza di una notizia attendibile e
verificata che riguardi una persona che ricopre un incarico pubblico,
perché il cittadino ha diritto di sapere da chi viene amministrato. In
altri Paesi quando questo accade scattano le dimissioni alla prima ombra
di sospetto, solo in Italia si grida allo scandalo».
Capita, lo chiedo a un giallista, che la nera venga raccontata
come un giallo. C’è il rischio in questo che chi legge si faccia un’idea
sbagliata?
«Secondo me nell’ultimo periodo da una scrittura narrativa alla Simenon,
siamo finiti a una scrittura narrativa alla Csi, con tutti i rischi che
questo comporta. Se nel primo caso parlavi ore con le persone per
capire e poi tiravi fuori una frase utile a spiegare l’insieme dei punti
di vista, oggi capire non interessa, soprattutto in Tv importa
mostrare. In questo il sopralluogo della polizia scientifica diventa una
formula di intrattenimento delle trasmissioni del pomeriggio. Col
risultato che il pubblico si fa l’idea che le tute bianche del Ris siano
maghi che risolvono tutto. Se poi non accade ci si resta male, senza
capire che l’indagine è una cosa complessa».