Il 21 maggio 2021 nostra mamma Ignazia, conosciuta da tutti come Enza, è tornata alla casa del Padre. Da 25 anni lottava con l’artrite reumatoide, una malattia autoimmune che non uccide, ma che rende, nel tempo, totalmente dipendenti dagli altri. In questi anni ha provato tutti i tipi di farmaci necessari a “tenere a bada” la sua malattia che no ad oggi non ha una cura. Negli ultimi quattro anni era costretta su una sedia a rotelle e quando e se camminava lo faceva solo con l’aiuto di un deambulatore. Ma la mamma era comunque una persona solare, che incoraggiava sempre tutti, aveva una parola di conforto, che non raccontava mai le sue sofferenze, tanto che sembrava sempre che stesse bene.
Nel novembre dello scorso anno per una frattura spontanea del femore ha subito un altro intervento chirurgico. In pochi giorni è sopraggiunta un’embolia. Mamma ha lottato e ha lasciato l’ospedale dove, per ragioni legate alla pandemia, ha trascorso quasi un mese da sola. Tornata a casa il decorso ci ha riservato una brutta notizia: mamma non avrebbe più potuto lasciare il letto. Ci siamo tutti armati di ulteriore buona volontà e spirito di dedizione, cose che non ci sono mai mancate.
Ma mamma non ha sorriso più. Non si sentiva a casa nella sua stanza, benché l’avessimo dotata di tutti i comfort e non mancava mai chi le tenesse compagnia. «La mia casa è», diceva, «dove ero abituata a stare prima, attorno al tavolo, vicino alla cucina». Mamma cominciava ad arrendersi. Noi due, tra permessi e congedi, abbiamo messo da parte il lavoro per diventare infermiere e operatrici sanitarie e nostro padre era giorno e notte sempre al suo capezzale.
Poi l’embolia ha di nuovo preso il sopravvento. In tutto 15 giorni di agonia, senza sapere se lei sentisse le nostre voci. Un «buonanotte» sussurrato sono state le ultime parole che le abbiamo sentito dire. Pregavamo, come abbiamo sempre fatto nella nostra vita, come lei ci aveva insegnato n da bambine. Pregavamo che il Signore della Vita, il Dio onnipotente che ha pietà dei miseri e ascolta le preghiere dei suoi figli, potesse ancora dire: «Alzati e cammina!». Ma ci chiedevamo anche il perché di tanta sofferenza, specie per una persona che già aveva sperimentato i patimenti di una lunga malattia. Poi abbiamo pregato perché il Signore compisse il suo disegno su nostra mamma.
Davanti alla sofferenza ci si sente sempre smarriti. E l’impotenza davanti al dolore è straziante. Non c’è dolore più grande che dover vedere soffrire e declinare, giorno dopo giorno, la persona che più si ama e non poter fare nulla per aiutarla. È di gran lunga peggio che provare dolore in prima persona. Se sei tu che stai male, puoi arrivare a fartene una ragione. Ma se sei costretto ad assistere al progressivo spegnersi di chi ti è caro, ti torturi inevitabilmente. Faresti qualunque cosa per aiutare chi ami. Toccare con mano la sofferenza vera, la malattia, la fragilità umana ti segna per sempre. Noi lo abbiamo fatto per 25 anni! E continuiamo con nostro padre, anziano, malato di tumore e distrutto dalla morte di nostra madre.
Se la legge ce lo avesse consentito, avremmo autorizzato l’eutanasia per nostra mamma? No!! Lo diciamo con forza. Con la forza della fede nel Dio della Vita e con quella della fede nell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Oggi, invece, ci si vuole convincere che l’eutanasia è un segno di civiltà. Ma uccidere un essere umano lo è davvero? Perché questa è l’eutanasia, la legalizzazione di un omicidio. L’omicidio di un consenziente che ha deciso che la sua vita non vale la pena di essere vissuta con dignità.
Ma cosa è una vita che vale la pena di essere vissuta? La vita fatta di benessere, di obiettivi raggiunti, di ricchezza... Una vita in cui non c’è posto per la sofferenza. Abbiamo paura della debolezza e della fragilità perché il modello consumistico ci ha insegnato a essere belli e vincenti. Perciò tutto ciò che non rientra in questi standard va eliminato. Gli anziani, non più produttivi, i malati, persino i bambini che la diagnosi prenatale annuncia essere portatori di un handicap. E per quest’ultimo caso l’uomo che si crede onnipotente e padrone del mondo fa ricorso all’eugenetica.
Eutanasia ed eugenetica vanno a braccetto. Non ci inganni il prefisso eu- che rimanda alla dolcezza e alla bellezza. Non c’è nulla di bello in un uomo che elimina un altro uomo, in una coppia di genitori che seleziona le caratteristiche genetiche migliori per il proprio bambino. Per quanto si vogliano controllare, la vita e la morte non ci appartengono. Non sono un prodotto che si può comprare, che possiamo scegliere e regolare a nostro piacimento.
Con tutto il rispetto per chi vive il dolore in prima persona, ci sentiamo di dire la nostra contro il progetto di legalizzare l’eutanasia nel nostro Paese. Non parliamo per sentito dire. Noi abbiamo visto la sofferenza. E testimoniamo con forza che toccare con mano la sofferenza vera, la malattia, la fragilità umana è abbracciare il Cristo martoriato. Il Cristo che si è fatto obbediente accettando i limiti della condizione umana. Oggi ci chiediamo dov’è Dio: è in ogni fratello e sorella sofferente, ci porge le mani scarne e tremanti perché gliele stringiamo, ci mostra le piaghe affinché le medichiamo, si scioglie in lacrime perché noi possiamo asciugarle. Questa è la vita.
E in questa vita, anche sopraffatta dal dolore, c’è la dignità dell’essere umano. Gesù Cristo è venuto al mondo come uomo per mostrarci cosa significa essere uomini. È nato piccolo e fragile come tutti bambini in ogni parte del mondo e in ogni tempo. Ed è morto soffrendo per mezzo del peggiore dei supplizi della sua epoca storica. Ma quella croce ha dato dignità alla sofferenza. I legni che la componevano sono essi stessi segni del sacrificio di Cristo. Il legno verticale ha unito l’uomo al cielo, a Dio; il legno orizzontale ha abbracciato il mondo perché tutti ci riscoprissimo fratelli. Gesù ha reso nobile la sofferenza. Questo dovremmo testimoniare, noi cristiani prima di tutto. E condannare tutto ciò che rende vano il sacrificio di Cristo: l’aborto, l’eutanasia e la guerra.
ROSALBA E MARTINA GIACALONE