Abbiamo visto le tragedie umane di Yara, di Meredith, di
Sarah, di Chiara replicarsi all’infinito, fin nei particolari più
truculenti, in un gioco di specchi e di schermi in cui i più
disparati hanno detto la loro, con maggiore o minore cognizione di
causa, contribuendo alla creazione di una pseudoverità sempre più
distante dal processo e dalle sue regole.
Abbiamo visto il tifo da stadio accalcarsi davanti ai tribunali.
Vediamo continuamente processi “processati” in arene televisive,
cariche d’opionisti pronti a disegnare dibattimenti come scontri
personali tra singoli pubblici ministeri e imputati eccellenti, magari
con la complicità degli avvocati, che hanno sulla vetrina mediatica mani
più libere rispetto ai magistrati vincolati al riserbo.
Ma l’aula di un tribunale non è uno stadio e neppure un salotto Tv e la
giustizia è una cosa troppo seria, ancorché criticabile e imperfetta,
per essere celebrata nella piazza divisa tra innocentisti e colpevolisti,
con poco o nullo riguardo per le vittime. Il processo non è neanche una
fiction di cui si possa dire tutto e il suo contrario, semmai è una
rapprentazione, con regole e riti in cui la forma è sostanza e che
spesso sfuggono alla comprensione dell’uomo della strada, esposto al
caleidoscopio dei racconti esterni e alternativi.
Se si aggiunge che accade - è accaduto di recente a Garlasco e a Perugia - che le sentenze di primo grado si ribaltino in appello e poi ancora in Cassazione, la confusione del pubblico – sempre meno spettatore del processo e sempre più assiduo fruitore del suo surrogato televisivo – diventa massima. Chi ha sbagliato? Chi è colpevole? Chi innocente?
Dov’è la verità, ammesso che ne esista davvero una e che l’unica
metafora possibile non sia il dramma pirandelliano? Domande legittime,
meritevoli di risposte seriemente argomentate.
Ma sarebbe grave se - spinti dall’onda emotiva
dell’ultimo massacro o dalla sfiducia in una giustizia lenta o ancora
fuorviati dall’interesse personale di imputati telegenici in cerca di
autolegittimazione – cadessimo nella tentazione di credere che tutto andrebbe meglio se spettasse al popolo l’ultima parola.
Basterebbe la storia di un signore che si chiamava Barabba, accaduta
circa 2.000 anni fa, a confermarci che non è una buona idea. L’emotività, in fatto di giustizia, è comoda e a buon mercato ma non dà buoni consigli, solo cattivo esempio.