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venerdì 21 marzo 2025
 
 

Colpevoli o innocenti?

05/06/2013  Yara, Meredith, Chiara, Sarah attendono ancora giustizia. I processi hanno stabilito una verità, rovesciata nei gradi successivi. La gente è smarrita e la Tv non aiuta.

Abbiamo visto le tragedie umane di Yara, di Meredith, di Sarah, di Chiara replicarsi all’infinito, fin nei particolari più truculenti, in un gioco di specchi e di schermi in cui i più disparati hanno detto la loro, con maggiore o minore cognizione di causa, contribuendo alla creazione di una pseudoverità sempre più distante dal processo e dalle sue regole.

Abbiamo visto il tifo da stadio accalcarsi davanti ai tribunali
. Vediamo continuamente processi “processati” in arene televisive, cariche d’opionisti pronti a disegnare dibattimenti come scontri personali tra singoli pubblici ministeri e imputati eccellenti, magari con la complicità degli avvocati, che hanno sulla vetrina mediatica mani più libere rispetto ai magistrati vincolati al riserbo.

Ma l’aula di un tribunale non è uno stadio e neppure un salotto Tv e la giustizia è una cosa troppo seria, ancorché criticabile e imperfetta, per essere celebrata nella piazza divisa tra innocentisti e colpevolisti, con poco o nullo riguardo per le vittime. Il processo non è neanche una fiction di cui si possa dire tutto e il suo contrario, semmai è una rapprentazione, con regole e  riti in cui la forma è sostanza e che spesso sfuggono alla comprensione dell’uomo della strada, esposto al caleidoscopio dei racconti esterni e alternativi.

Se si aggiunge che accade ­­­- è accaduto di recente a Garlasco e a Perugia - che le sentenze di primo grado si ribaltino in appello e poi ancora in Cassazione, la confusione del pubblico ­­– sempre meno spettatore del processo e sempre più assiduo fruitore del suo surrogato televisivo – diventa massima. Chi ha sbagliato? Chi è colpevole? Chi innocente? Dov’è la verità, ammesso che ne esista davvero una e che l’unica metafora possibile non sia il dramma pirandelliano? Domande legittime, meritevoli di risposte seriemente argomentate.

Ma sarebbe grave se - spinti dall’onda emotiva dell’ultimo massacro o dalla sfiducia in una giustizia lenta o ancora fuorviati dall’interesse personale di imputati telegenici in cerca di autolegittimazione – cadessimo nella tentazione di credere che tutto andrebbe meglio se spettasse al popolo l’ultima parola. Basterebbe la storia di un signore che si chiamava Barabba, accaduta circa 2.000 anni fa, a confermarci che non è una buona idea. L’emotività, in fatto di giustizia, è comoda e a buon mercato ma non dà buoni consigli, solo cattivo esempio.

Elisa Chiari

Gianrico Carofiglio ha spesso fatto del processo l’oggetto dei suoi legal thriller, se così possiamo chiamarli, all’italiana, soprattutto nella saga che ha per protagonista l’avvocato Guerrieri. L’ha fatto potendo contare, cosa normalmente preclusa ai suoi colleghi scrittori, sulla conoscenza profonda dei tribunali e dei loro meccanismi, perché nella vita è un magistrato (al momento in aspettativa e sul punto di decidere se rientrare o darsi alla scrittura definitivamente). Per questo abbiamo pensato che fosse la persona più adatta ad aiutarci a capire che relazione c’è tra il processo vero e il racconto che se ne fa.

Dottor Carofiglio, partiamo da qui: che relazione c'è tra il processo e il racconto del processo?
«Se la domanda mira a individuare i possibili condizionamenti sui processi delle racconto che se ne fa sui mezzi di informazione, direi: poco o niente. Il processo penale interpretato da professionisti è un meccanismo che dev’essere capace, e tendenzialmente lo è, di mantenersi immune dalle chiacchiere dei cosiddetti processi paralleli».

L’opinione pubblica accoglie con meraviglia le sentenze che si ribaltano nei diversi gradi di giudizio. Siamo nel campo della fisiologia o della patologia del processo?
«Se non fosse prevista in astratto, a salvaguardia dell’ inevitabile imperfezione dei giudizi la possibilità di riformare o di annullare le sentenze, ci sarebbe un solo grado giudizio con sentenze  immediatamente esecutive. Il risultato sarebbe l’incremento il margine di errore. I diversi gradi di giudizio esistono proprio perché si vuol ridurre al minimo il rischio di errori e la riforma di una sentenza è un fatto del tutto naturale. Lo sconcerto della pubblica opinione dipende molto da strumentalizzazioni o da informazione disattenta e superficiale.».  

L’uomo della strada però davanti a una sentenza rovesciata in appello continua a chiedersi: chi ha sbagliato e perché?
«Se vuole davvero questa risposta, anche l’uomo della strada deve fare qualcosa di più impegnativo che guardare certi programmi televisivi. Deve informarsi davvero, magari leggere le sentenze (o delle loro sintesi affidabili), che emesse nel nome del popolo italiano sono sempre motivate, a differenza di quanto accade nel processo anglosassone. Per criticare bisogna sapere, per sapere non basta ascoltare trasmissioni televisive in cui si mette in scena  una parodia del processo. Se non altro perché il processo è una cosa molto seria che ha a che fare con la sofferenza di tante persone, vittime e imputati e che per questo non andrebbe ridicolizzata».

E’ possibile che la pressione mediatica complichi la serenità del processo vero, soprattutto nei casi in cui intervengono giudici popolari?
«Danneggiare la serenità di chi giudica non è mai una buona cosa, ciò detto l’interferenza del chicchiariccio sul processo è più apparente che reale. Parlo del chiacchiericcio volutamente, perché invece ci sono casi in cui serie opere di denuncia, di lettura critica fatta in maniera seria e civile, hanno permesso di portare alla luce – e riparare - gravi ingiustizie. Si pensi alla straordinaria denuncia di Emile Zola  - J’accuse, si intitolava la sua famosa lettera al presidente della Repubblica francese -  del caso Dreyfus».

Sui giornali e in Tv si parla spesso di “prova scientifica” come se fosse una soluzione taumaturgica, è una distorsione?
«Direi di sì. Assistiamo a una sorta di mitizzazione della scienza, ma la prova scientifica è un elemento che va valutato, come tutti gli altri. Non è certo la soluzione magica a ogni problema dell’indagine e del processo. Me lo lasci ripetere: la prova scientifica va valutata, esattamente come le prove tradizionali. Provo a spiegarlo con un esempio: se io trovo un’impronta digitale sul luogo di un furto ho la certezza pressoché assoluta che la persona cui quell’impronta corrisponde sia stata lì. Da questo punto però sorge l’esigenza della valutazione, nel quadro degli altri elementi di prova. Infatti se risulta che questa persona non è mai stata nel luogo del delitto per ragioni lecite (cosa che si dimostra con altri elementi di prova, per esempio testimonianze) si può affermare ragionevolmente la sua colpevolezza. Se al contrario, sempre in base ad altri elementi di prova, risulta che il soggetto in questione era stato altre volte e per ragioni lecite in quel posto, il valore decisivo della prova scientifica viene meno. Lo stesso discorso si può fare, per esempio, rispetto al Dna o ad altro»

Spesso il grande pubblico chiede alla giustizia certezze assolute, spesso fatica a capire il concetto di “ragionevole dubbio”. Riusciamo a spiegarlo?
«La certezza processuale assoluta semplicemente non esiste, perché i fatti di cui un processo si occupa non avvengono davanti ai nostri occhi. Sono vicende del passato che dobbiamo ricostruire attraverso dei segni – gli indizi - cercando di mettere insieme un quadro plausibile di quanto avvenuto. Una volta ottenuto un racconto plausibile, altissimamente probabile, coerente, dobbiamo verificarne il grado  di resistenza, ipotizzando spiegazioni alternative plausibili e coerente con tutti gli indizi, con le conoscenze scientifiche, con il senso comune. Se una spiegazione alternativa plausibile esiste quello è il ragionevole dubbio».

Domanda per lo scrittore: perché alcuni casi colpiscono tanto l’immaginario collettivo?
«Non c’è dubbio che ci siano fattori contingenti.  Casi  anche  banali non vengono risolti in breve tempo e diventano quasi un’ossessione collettiva. Poi ci sono alcune caratteristiche intrensicamente capaci di colpire l’immaginario collettivo, fatti inattesi, fuori dagli schemi anche criminali, fatti che alludono a paure elementari, fatti molto cruenti, che si inseriscono in narrazioni potenti, simboliche a volte quasi archetipiche».

Uno di questi casi è stato certamente il cosiddetto processo Meredith. Quanto può avere influito, sulla percezione del processo,  il fatto che si avessero in mente sistemi processuali diversi: quello anglosassone, americano e inglese, e quello italiano?
«E’ possibile che questo abbia avuto una sua influenza. Negli Stati Uniti è diffusa una percezione agonistica del processo, e al tempo stesso vi è la convinzione che quello sia il sistema più efficace per raggiungere la verità. Convinzione, sia detto per inciso, abbastanza discutibile. La critica al sistema giudiziario italiano può aver influito sull’amplificazione della risonanza di questa storia. D’altro canto il caso era adatto a sollecitare l’immaginario collettivo: è simbolico, colpisce le emozioni per i soggetti implicati, per l’imprevedibilità della vicenda. Poi, certo, sono scattati meccanismi di vera e propria tifoseria, gli americani fautori dell’innocenza perché la Knox è americana, gli inglesi colpevolisti perché Meredith era inglese. Tutte cose che non dovrebbero accadere ma che, sfortunatamente, sono accadute».

Elisa Chiari

Le grandi storie di cronaca nera ci appassionano e la giustizia in democrazia non può che essere un fatto pubblico, ma il modo con cui lo diventa a volte distorce la percezione che ne abbiamo. Per i salotti Tv trasformati in surrogati del tribunale Glauco Giostra, professore ordinario di Procedura penale all'Università La Sapienza di Roma, attualmente membro laico, cioè non magistrato, del Consiglio superiore della magistratura, ha coniato l'espressione "processo parallelo". Gli abbiamo chiesto di aiutarci a capirne qualcosa di più.

Professor Giostra, perché in uno Stato democratico, è così importante che i cittadini siano correttamente informati in materia di giustizia?
«Ogni collettività democraticamente organizzata ha vitale bisogno di credere nella sua giustizia, per evitare che  la risoluzione dei conflitti venga affidata ad altri strumenti, socialmente dirompenti (la vendetta, i rapporti di forza, il dispotismo politico; i poteri criminali). Si può arrivare a dire che per la tenuta sociale di un Paese la fiducia dei consociati nella giustizia è almeno altrettanto importante del modo stesso in cui viene effettivamente amministrata. La    funzione di “collante” sociale della giurisdizione pog­gia su una circolarità virtuosa, che in termini elementari potrebbe essere così riassunta: il potere legislativo, espressione della collettività - fissa le regole della convivenza e il procedi­mento per accertarne la violazione; un organo “terzo”, a ciò preventivamente deputato per legge, applica le norme nel caso concreto; la collettività controlla il modo in cui si amministra giustizia in suo nome e lo valuta: se insoddisfatta, cambia – per il tramite dei suoi rappresentanti politici – le regole che puniscono i comportamenti di intollerabile disvalore sociale o il procedimento per accertarne la commissione. Si riattiva così il moto circolare che esprime la vi­talità democratica e civile di un Paese. Ciò postula naturalmente  che la collettività possa co­noscere il  modo in cui viene resa  giustizia in suo nome. L’informazione, soprattutto l’informazione sul processo penale ha quindi un ruolo fondamentale e insostituibile in una società democratica. Purché, s’intende, sia libera e pluralista». 

Non è questo - par di capire - il tipo di informazione per cui ha coniato l'espressione "processo parallelo", evidenziandone i rischi: riusciamo a spiegare al lettore, digiuno di legge ma telespettatore, che cosa intende con questa espressione? 
«Il problema nasce quando dall'informazione sul processo si passa al processo celebrato sui mezzi d'informazione. Da molto tempo ormai ha preso piede, infatti, la tendenza a scim­miottare le forme e la terminologia della giustizia ordinaria, per presentare all’opinione pubblica la messa in scena di un processo “celebrato”  in Tv : "un’aula mediatica” che si costituisce come foro alternativo, come aula di giustizia più “a portata di popolo”.In effetti, le suggestioni, le possibilità di confusione e di commistione non sono poche, perché entrambe queste attività – quella del giudice ordinario e quella dell’operatore dell’informazione che allestisce la mimesi giudiziaria – tendono al medesimo fine, cioè a ricostruire un accadimento passato attraver­so tracce, testimonianze, dichiarazioni, cose del presente. Bisogna, però, cer­care di tenere sempre ben distinti i due fenomeni, perché sono sostanzialmen­te diversissimi: il processo giurisdizionale ha un luogo deputato, il processo mediatico nessun luogo; l’uno ha un itinerario scandito, l’altro nessun ordine; l’uno un tempo (finisce con il giudicato ed è, di regola, irripetibile), l’altro nessun tempo; l’uno è cele­brato da un organo professionalmente attrezzato, l’altro può essere “officiato” da chiunque».

Ci sono altre differenze, magari meno evidenti agli occhi dei non esperti, ma più profonde?
«Il processo giurisdizionale seleziona i dati più attendibili su cui fondare la decisione; il proces­so mediatico raccoglie in modo bulimico ogni conoscenza che arrivi ad un mi­crofono o ad una telecamera: non ci sono testi falsi, non ci sono domande suggestive, tutto può essere utilizzato per maturare un convincimento. Il pri­mo, è intessuto di regole di esclusione per  evitare che il giudice possa servirsi di elementi suggestivi o inaffidabili; il secondo, inve­ce, conosce  soltanto regole d’inclusione, è onnivoro. Nel primo ci sono criteri di valutazione delle prove, frutto di secolare sedimentazione; nel secondo, invece, valgono l’intuizione, il buon senso, l’emotività. Il processo giurisdizionale ob­bedisce alla logica del probabile, il processo mediatico a quella dell’apparenza. Nell’uno, la conoscenza è funzionale all’esercizio del potere punitivo da parte dell’organo costituzionalmente preposto; nell’altro, serve a propiziare, e spesso indurre, un convincimento collettivo sulle responsabilità di alcuni soggetti. Nel primo, il cittadino è consegnato al giudizio dei soggetti   deputati e preparati  ad amministrare giustizia; nel secondo, alla “folla” me­diatica».

Come influisce, se influisce, il "processo parallelo" sulla nostra idea di giustizia?
«È innegabile  che, nonostante le differenze siderali che intercorrono tra il processo giudiziario e quello mediatico, non sem­pre l’utente riesce a distinguere i due fenomeni, e a coglierne i diversi signifi­cati, le diverse garanzie e il diverso grado di affidabilità. E anzi, quando li pone a confronto, è la dimensione formale del processo ordinario – e quindi del suo prodotto, la sentenza – a far risultare meno comprensibile il "rito"e meno “giusto” il suo prodotto finale: la sentenza. Si registra, cioè, una certa insofferenza per la giustizia istituzionale, intessuta di regole e di limiti, a fronte del presunto accesso diretto alla verità, che sembra assicurato dall’avvicinamento di un microfono o di un obbiettivo alle fonti».

Vuol dire che in qualche modo la sentenza finisce per apparire agli occhi dell'opinione pubblica "meno vera" rispetto al convincimento che ciascuno ha maturato davanti alla Tv?
«Liberata da ogni forma del procedere, quella fornita dai mass media sembra l’unica verità immediata. E con ciò si sconfina nell’ossimoro, trattan­dosi invece della verità mediata per definizione e per eccellenza. L’insidiosa idea, sottesa a questo "favore" per il processo celebrato sui mezzi di informazione, è che il miglior giudice sia l’opinione pubblica. Questa idea ne evoca un’altra: il sogno della democrazia diretta, della gestione della cosa pubblica da parte dei cittadini senza l’intermediazione della rappresentanza politica. Sarebbe bene, al contrario, tenere ferma almeno una convinzione: il pro­cesso reso nell’agorà mediatica, in cui il giudice è l’opinione pubblica, ha a che fare con la giustizia quanto un potere politico, che debba rispondere sol­tanto al popolo e ai sondaggi, senza mediazioni e contrappesi istituzionali, ha a che fare con la democrazia: cioè nulla, assolutamente nulla».

C'è il rischio che il "processo parallelo" intralci in qualche modo l'andamento del processo vero?
«La circostanza che la "vera" giustizia sia affidata a soggetti professionalmente attrezzati diminuisce i rischi che sia influenzata da quella, "taroccata", di tipo mediatico. Tuttavia, ci sono diversi rischi di condizionamento che vanno considerati. Vi è anzittutto, il rischio che le persone informate sui fatti riferiscano dinanzi alla folla mediatica ciò che hanno già detto all'inquirente nella fase segreta delle indagini, disvelando possibili orientamenti investigativi. Se invece è il giornalista ad avvicinare per primo il testimone potendo rivolgergli domande in forma suggestiva o subdola o "conducente", potrebbe indurre risposte cui poi il teste rimane psicologicamente vincolato anche dinanzi all'autorità giudiziaria; rischio che assume le caratteristiche di una quasi-certezza quando si ha a che fare con "soggetti deboli" (minori, psicolabili), i quali tendono ad elaborare la risposta in base al modo con cui viene loro rivolta, per la prima volta, la domanda».

Questo può valere per testimoni, imputati, persone informate sui fatti. Esiste anche il rischio di influenzare il giudizio?
«La precoce rappresentazione del processo mediatico altera, in ogni caso, la regola fondamentale del processo vero è quella, cioè, per cui la prova si forma davanti al giudice del dibattimento (quello che pronuncia la sentenza), il quale non deve conoscere ciò che si è acquisito durante le indagini. Càpita, invece, che il giudice apprenda dalla Tv (per esempio dichiarazioni di testi) ciò che il sistema gli impedisce di conoscere nel processo (per esempio quelle medesime dichiarazioni acquisite dal Pm durante le indagini). Resta, infine, pericolo che possa subire un condizionamento psicologico -pericolo assai consistente nei giudizi di corte di assise, in cui siedono giudici popolari- chi deve pronunciare una sentenza, che il giudizio mediatico e quindi la collettività hanno già pronunciato. Queste le più rilevanti ripercussioni sul singolo processo, ma, per quel moto circolare di cui dicevo all'inizio (leggi - giustizia amministrata-informazione sulla giustizia – modifica delle leggi), non è difficile cogliere più in generale i rischi che una rappresentazione distorta della giustizia, come quella offerta dal processo mediatico possa inquinare quel circuito democratico inducendo a cambiare ciò che merita di essere conservato o, talvolta, a conservare ciò che dovrebbe essere cambiato».

Elisa Chiari

Si tratti di Tv o di carta stampata, è il giornalista a guidare l’uomo della strada, dentro il mistero del delitto e del processo. Abbiamo chiesto a Piero Colaprico, cronista di nera e giudiziaria a Repubblica, nonché giallista di successo, di condurci dietro le quinte del suo lavoro.  

I tempi della giustizia sono notoriamente lunghi, quelli dell’informazione sempre più brevi. Si riesce a conciliarne le esigenze in qualche modo?
«Le cose sono cambiate dal 1989 con il nuovo codice di procedura penale. Finché l’indagine è stata a lungo segreta di quella fase si parlava pochissimo, il clou della cronaca era il processo. Oggi è la fase di indagine a farsi più appetibile per il cronista: è quella in cui arrivano le notizie, magari degli arresti, ma anche quella in cui le garanzie sono minori. Mentre il processo si segue poco: si pensi al caso di Garlasco, l’indagine va in prima pagina, il processo magari in decima con pezzi più brevi. Però è anche vero che si sono moltiplicati i mezzi di informazione cui attingere, per cui chi vuole seguire nel tempo quello che accade ha più possibilità che in passato, il problema è che spesso chi si lamenta di quello che non sa, non fa il minimo sforzo per saperne di più».

La velocizzazione progressiva del sistema mediatico, siti, video, twitter, ha complicato il lavoro del cronista di nera e giudiziaria?
«Molto dipende dal cronista, direi che è diventato più semplice per il giornalista esperto che sappia mettere le mani e più complicato per chi non è esperto. Si nota di più la differenza tra esperti, inesperti e “non giornalisti” che al di là delle apparenze manipolano sapendolo l’opionione pubblica, dandole in pasto velocemente verità parziali difficili da smentire».

Al cronista di nera spesso si rimprovera la morbosità, è una necessità o si può evitare?
«Premesso che la responsabilità dell’eccesso di sangue va divisa in due tra il giornalista e il suo direttore o superiore, credo che nel nostro mestiere l’individualità delle persone sia ancora forte. Se tu tratti tutte le persone come se fossero persone con cui hai un rapporto, sarai un cronista che riesce a raccontare tutto in modo da essere il meno possibile offensivo. Ci sono però alcuni che ritengono l’essere umano materia inerte e fanno cose di cui prima o poi spero si vergognino, perché il dolore che noi arrechiamo soprattutto alle famiglie delle vittime è difficilmente sanabile. E quando poi torni ad avere a che fare con queste persone il modo con cui ti guardano è la misura che ti fa dire se hai fatto il giornalista come si deve o se l’hai fatto in maniera spietata e volgare».

E in giudiziaria, dove il segreto normalmente è a tutela, non della privacy come si dice, ma delle indagini, premesso che le notizie non hanno gambe, c’è un criterio che ti fa decidere come dire le cose che sai?
«L’unico caso in cui mi sia capitato di non scrivere quello che sapevo è stato quando c’erano ostaggi in mano ai sequestratori. Se fai il cronista devi stare alle regole della tua tribù, se vieni a conoscenza di una notizia scrivi. Poi certo può esserci una modulazione: una notizia importante si dà e subito, se sai che hai una notizia secondaria che non aggiunge nulla di sostanziale al lettore ma lede un’indagine puoi anche decidere di tenertela per qualche giorno. Ma nessun tipo di censura può intervenire in presenza di una notizia attendibile e verificata che riguardi una persona che ricopre un incarico pubblico, perché il cittadino ha diritto di sapere da chi viene amministrato. In altri Paesi quando questo accade scattano le dimissioni alla prima ombra di sospetto, solo in Italia si grida allo scandalo».

Capita, lo chiedo a un giallista, che la nera venga raccontata come un giallo. C’è il rischio in questo che chi legge si faccia un’idea sbagliata?
«Secondo me nell’ultimo periodo da una scrittura narrativa alla Simenon, siamo finiti a una scrittura narrativa alla Csi, con tutti i rischi che questo comporta. Se nel primo caso parlavi ore con le persone per capire e poi tiravi fuori una frase utile a spiegare l’insieme dei punti di vista, oggi capire non interessa, soprattutto in Tv importa mostrare. In questo il sopralluogo della polizia scientifica diventa una formula di intrattenimento delle trasmissioni del pomeriggio. Col risultato che il pubblico si fa l’idea che le tute bianche del Ris siano maghi che risolvono tutto. Se poi non accade ci si resta male, senza capire che l’indagine è una cosa complessa». 

Elisa Chiari

Alzi la mano chi non ha desiderato un avvocato alla Perry Mason. Ecco appunto. E alla fine, a forza di invocarlo, Perry Mason ci ha rovinati o meglio ha inquinato l’idea di giustizia che ci portiamo dentro e che spesso inconsciamente usiamo come metro per valutare quella reale. Come ben descrive con ricchezza di particolari e di voci In nome della Legge, la giustizia nel cinema italiano, edito da poco da Rubettino a cura di Guido Vitiello, non è soltanto la cronaca nelle sue forme a influenzare la nostra rappresentazione mentale della giustizia, anche la fiction e la letteratura hanno fatto la loro parte, a volte con effetti positivi, altre volte nefasti. E Perry Mason, lo dicono in tanti, su questo fronte ha fatto danni. Perché la giustizia di Perry Mason non esiste in natura.

Gian Carlo De Cataldo nel suo In Giustizia gli dedica un ritrattino al vetriolo, fino a definirlo: «Uno scatenato figlio di buona donna che non ha la più pallida idea di cosa significhi il rispetto della legge e dell’etica». Michele Leoni, presidente della seconda sezione penale del Tribunale di Bologna in un articolo ironico nei toni e serio negli argomenti lo descrive così: «Mason avvocato ideale, difensore dei deboli e braccio della giustizia, in realtà era un personaggio da operetta, maneggione e sbrigativo». E quando chiediamo a Leoni di spiegarci meglio il perché di una sentenza tanto severa chiama in causa l’aiutante Drake: «Collabora con Mason, lo aiuta nelle indagini difensive e quando gli torna utile ottiene quello che cerca anche menando le mani, non è un esempio edificante per un uomo di diritto». 

Ma, al di là della dubbia deontologia di Mason che suggerisce l’idea che si possano fare in nome della giustizia con la G maiuscola cose che la legge non ammette, magari assecondando qualche istinto forcaiolo, il superavvocato uscito dalla penna di Enle Stanley Gardner ha influenzato il nostro immaginario sulla giustizia anche in un altro aspetto, meno evidente all’uomo qualunque e forse per questo anche più insidioso: la verosimiglianza. 

«Il fatto che Mason difenda solo innocenti», spiega Leoni, «oltreché deontologicamente discutibile perché i diritti di difesa vanno garantiti a tutti, è inverosimile. Nella realtà esistono anche i colpevoli e, a differenza che nella saga di Perry Mason, non confessano mai in aula. Anche perché nel caso in cui un testimone crollasse in aula fino a confessare il delitto di cui è imputato un altro – ma basterebbe che affiorasse un indizio a carico del testimone non imputato -, il nostro ordinamento ci obbligherebbe a sospendere la deposizione per chiamargli l’avvocato».

Mentre in Perry Mason la confessione in diretta è pressoché matematica. «Col risultato che chi osserva un processo pensando a Perry Mason chiede alla giustizia il trionfo conclamato della verità reale, mentre molte volte nel processo si arriva a una verità processuale che anziché smascherare il colpevole in aula assolve un imputato, perché le prove raccolte a suo carico non bastano a fugare il ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza».

Sarebbe l’ideale che la verità reale, assoluta, priva di dubbi coincidesse, e sempre, con la verità processuale – magari senza i metodi sbrigativi di Perry Mason ­– «Ma una giustizia così non esiste, in nessun sistema al mondo. Poi certo si potrebbe fare molto meglio, per accelerare per evitare che troppi processi per reati comuni finiscano in prescrizione, ma servirebbero risorse e persone. E all’orizzonte non se ne vedono». Elisa Chiari    

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