La creazione di Adamo, nella Sistina, come l’inizio del film Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Il paragone non è irriverente se a farlo è il direttore dei Musei Vaticani, e già ministro dei Beni culturali, Antonio Paolucci . «Michelangelo», spiega il professore, «introduce una formidabile novità iconografica. Fino a quel momento gli artisti avevano rappresentato la creazione dell’uomo come translitterazione dal testo del Genesi: Dio che impasta un pupazzetto con un po’ di terra e vi soffia dentro. Michelangelo, invece, immagina che l’uomo sia già creato. Disegna un bellissimo Adamo nudo, disteso, con la schiena poggiata sulla terra dalla quale proviene. Poi arriva Dio, in una specie di nube di angeli rossi, e stende verso di lui la mano con l’indice puntato. Anche Adamo rivolge la sua mano verso Dio e la creazione avviene quasi per contatto elettrico: le due dita si sfiorano, senza neanche toccarsi, e l’uomo ha destino e anima immortale».
È la parte di affresco che predilige?
«Sì. E mi ricorda molto Odissea nello spazio. Lì, all’inizio, ci sono le scimmie antropomorfe che battono le pietre, la loro prima attività manuale. A un certo punto passa su di loro la pietra nera e, dalle pietre percosse, in una frazione di secondo, viene fuori il missile intercontinentale. Così nasce l’uomo: dalla natura, dalla scimmia insufflata da qualcosa di esterno, la pietra nera in Kubrick, Dio in Michelangelo. È qualcosa di affascinante».
La Cappella Sistina, con i suoi cinque secoli e i suoi cinque milioni di visitatori all’anno è un capolavoro indiscusso. Eppure Michelangelo non voleva dipingerla. È così?
«Facciamo un passo indietro. Prima di arrivare agli affreschi è importante capire il senso della cappella. La fa costruire Sisto IV della Rovere, zio di Giulio II. Il Papa chiama a Roma Baccio Pontelli, siamo negli anni Settanta del ’400, e fa costruire quella che i documenti chiamano la Cappella Magna, la cappella grande di Roma, la cappella papale per eccellenza. La struttura ha le stesse misure, indicate dalla Bibbia, del perduto Tempio di Gerusalemme. Rappresenta dunque l’Arca della nuova ed eterna alleanza tra Dio e gli uomini. Sisto IV, dopo averla costruita, la fa pitturare a destra e a sinistra con due strisce di dipinti. Sono artisti del calibro di Botticelli, Perugino, Ghirlandaio, Luca Signorelli, il meglio del Rinascimento italiano, che si cimentano in quest’opera. Le due strisce raccontano l’una le storie di Cristo e l’altra quelle di Mosè. Mosè il legislatore della vecchia legge e Cristo il legislatore della nuova e definitiva legge».
Una catechesi per immagini?
«Certo. In più, quando si entra nella Sistina, la prima cosa che si vede è un grande affresco di Pietro Perugino che raffigura la consegna delle chiavi al primo Papa. Il messaggio è chiaro: si sottolinea la legittimità dei Papi di Roma che deriva dalla continuità apostolica».
E Michelangelo quando entra in campo?
«Quarant’anni dopo, nel 1508. Il nipote di Sisto IV, Giulio II, chiama davanti a sé due artisti, il giovane Raffaello Sanzio, al quale dà l’incarico di affrescare le sue stanze, e Michelangelo per affrescare la volta della Sistina. Lui non vorrebbe, non si sente pittore, il rapporto con Giulio II è travagliato. Ma alla fine comincia il lavoro».
È vero che fu Bramante, per invidia, a suggerire il nome di Michelangelo?
«Anche nel Vaticano di allora c’erano invidie, gelosie, cordate politiche. Michelangelo poi non aveva un bel carattere. Donato Bramante, zio di Raffaello pensava che, essendo Michelangelo scultore, avrebbe fatto una pessima figura come pittore e sarebbe uscito dalle grazie del Papa».
Effettivamente all’inizio fa qualche errore...
«Sì, è vero che in principio ci sono dei problemi. Anche perché Michelangelo vuol fare tutto da solo. Nei primi affreschi, quelli con il diluvio, sbaglia la mistura dei colori e vengono fuori delle muffe. Deve rifare tutto il lavoro. Poi però impara la tecnica e non sbaglia più. Per quattro anni, fino al 1512, lavora praticamente da solo. Si tratta di più di mille metri quadrati di affreschi, più di trecento figure di tutte le misure. Il 31 ottobre del 1512, dopo aver lavorato su un ponteggio alto 25 metri che lui stesso aveva progettato, con la schiena appoggiata sul legno e i colori che gli gocciolano sulla faccia, consegna l’opera a Giulio II che vi celebra i Vespri della vigilia di Ognissanti. Lo stesso rito che Benedetto XVI ha voluto replicare lo scorso 31 ottobre 2012 per celebrare i 500 anni dell’opera».
In 500 anni la Sistina è stata restaurata più volte, ha subìto anche un crollo. Oggi come pensate di tutelare un bene come questo?
«L’ultimo, bellissimo, restauro è quello inaugurato nel 1994 e condotto dal maestro Luigi Colalucci. Da allora, non solo per la Sistina, ma per tutto il magnifico patrimonio artistico dei Musei, abbiamo studiato e stiamo studiando degli accorgimenti per tutelare le opere. In particolare, stiamo pensando di regolare diversamente il flusso degli oltre 20 mila visitatori che ogni giorno entrano nei Musei. Pensiamo di allungare i tempi di visita aprendo prima e chiudendo dopo. E poi stiamo mettendo a punto un nuovo sistema di condizionamento, di abbattimento delle polveri, di controllo delle temperature e dell’umidità. Tutto questo per continuare a rendere fruibili i nostri capolavori. I Musei bisogna visitarli, guardarli, usare gli occhi. È un’esperienza unica di arte, ma anche di fede».