Le politiche sull’immigrazione in Italia sono sempre state materia rovente e oggetto di polemiche tra i partiti. Nel 1998 la legge Turco-Napolitano cerca, da un lato, di favorire l’immigrazione regolare e di scoraggiare quella clandestina. Gli stranieri che arrivano e si fermano nel nostro Paese senza regolare permesso diventano destinatari di un provvedimento di espulsione dallo Stato. La legge, inoltre, istituisce per la prima volta i Centri di permanenza temporanea (Cpt) dove vengono accolti tutti gli immigrati «sottoposti», recita la norma, «a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile».
Nel 2002 arriva la legge Bossi-Fini che attua un vero e proprio giro di vite in tema di ingresso, permesso di soggiorno e di lavoro. In sostanza, è prevista l’espulsione, emessa dal Prefetto della provincia dove si trova lo straniero clandestino, eseguita subito con l’accompagnamento alla frontiera da parte delle forze dell’ordine. Nei Cpt vengono invece portati gli immigrati privi di documenti d’identità validi per essere identificati e, infine, chi dimostra di avere un lavoro con cui mantenersi economicamente, può ottenere il permesso di soggiorno.
I respingimenti verso il Paese d’origine dell’immigrato sono permessi in acque extraterritoriali in base ad accordi bilaterali fra Italia e Paesi limitrofi che consentono alle polizie di collaborare tra loro.
Passano due anni e nel luglio del 2004 la Corte Costituzionale dichiara illegittime alcune norme. In particolare, avanza le sue riserve sul fatto che l’immigrato possa essere espulso, dopo essere comparso davanti al giudice per la convalida del provvedimento, senza contraddittorio e garanzie di difesa.
Per la Consulta, la tutela della difesa non può venire meno per garantire il controllo dei flussi migratori da parte dello Stato.
La Corte, inoltre, boccia la possibilità di eseguire l’accompagnamento coatto alla frontiera da parte del questore prima che ci sia la convalida dell’autorità giudiziaria e la norma che prevede l’arresto obbligatorio in flagranza per lo straniero che non abbia rispettato il limite di 5 giorni per allontanarsi dall’Italia.
Nel maggio 2008 il governo Berlusconi vara il primo “pacchetto sicurezza” che introduce l’aggravante dell’immigrazione clandestina con una pena da sei mesi a quattro anni di carcere.
Un anno dopo, l’8 agosto 2009, entra in vigore il Decreto legislativo n.94 (noto come “Pacchetto sicurezza”), con ministro dell’Interno Roberto Maroni, che introduce il reato di immigrazione clandestina. Chi entra o soggiorna in maniera illegale in Italia commette il reato di immigrazione clandestina e rischia un’ammenda da 5 mila a 10 mila euro. I clandestini sono sottoposti a processo davanti al giudice di pace con espulsione per direttissima.
Nel dicembre 2010 la Corte Costituzionale con la sentenza n. 359 dichiara illegittima la norma affermando che non è reato restare nel nostro Paese per povertà. In sostanza, dice la Consulta, non si può punire penalmente lo straniero che si trova in «estremo stato di indigenza», o comunque per «giustificato motivo», non ha obbedito più di una volta all’ordine di allontanamento del questore, continuando a rimanere illegalmente in Italia.
Il reato di immigrazione clandestina viene inoltre “bocciato” anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea in due occasioni, nel 2011 e nel 2012.
«Una sanzione penale come quella prevista dalla legislazione italiana», scrivono i giudici Ue, «può compromettere la realizzazione dell'obiettivo di instaurare una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali». Tradotto: se l’obiettivo della legge è quello di rendere effettivo l’allontanamento degli immigrati irregolari, è un po’ dura farcela prevedendo una pena detentiva (da 6 mesi a 4 anni) che li metta in carcere.
Ma il reato di clandestinità, nonostante i vari pronunciamento delle Corti, continua a rimanere nell’ordinamento italiano.