Con oltre 2 milioni di pazienti assistiti nel 2021, 1.356.429 visite a bambini con meno di 5 anni, 173.205 parti, 2.198 bambini malnutriti trattati, ogni giorno il Cuamma dal 1950 si prende cura dei malati nei 23 ospedali e nei 761 centri di salute, distribuiti in 8 paesi dell’Africa sub-Sahariana. La testimonianza delchirurgo Alessandra Cattani,che si occupa in particolare dei bambini nell’ospedale di Pujehun in Sierra Leone.
Un giorno, nel tardo pomeriggio, mi chiamano dalla Pediatria per un bambino ustionato appena arrivato. L’ustione, causata da acqua bollente, risale a 2 settimane prima. Si estende alla faccia anteriore e mediale degli arti inferiori e al basso ventre. Nonostante non sia particolarmente estesa, deve essere considerata grave a causa della profondità (e dell’infezione sovrapposta). I lembi di pelle ustionati sono duri e accartocciati, ma ancora adesi all’ipoderma sottostante. Il bambino è stato portato nel nostro ospedale dalla madre, dopo aver trascorso due settimane in un Centro di salute periferico, senza alcun miglioramento. Si chiama Ansu e ha 4 anni. Sul volto si legge paura e sofferenza. Dopo le procedure per il ricovero e i test preliminari, decido di rinviare la medicazione all’indomani, limitandomi a lavare la parte ustionata con soluzione fisiologica al fine di rimuovere l’inutile tintura applicata al Centro di salute. Il giorno seguente, con una blanda sedazione, eseguiamo l’escarectomia, cioè l’asportazione della cute e dei tessuti morti. Metto la copertura antibiotica e analgesica, conscia che la parte esposta, ora vitale e sanguinante, è molto dolente. Le successive medicazioni, consistenti in lavaggi di pulizia con la soluzione fisiologica e nell’applicazione della crema specifica per le ustioni, devono essere effettuate almeno ogni 2 giorni e protratte sino a guarigione avvenuta. Le prime, le più dolorose, decido di farle con una leggera anestesia, poi senza. Raccomando alla madre di fargli fare esercizio con le gambe, flettendole ed estendendole, e di metterlo in piedi e farlo camminare il più precocemente possibile, al fine di evitare le retrazioni cicatriziali, frequentissime nelle ustioni profonde. E mi sorprende e commuove vedere il coraggio di questo scricciolo che affronta i corridoi dell’ospedale reggendosi con una mano al vestito della madre e con l’altra alla parete del corridoio, la determinazione con cui, almeno all’inizio, si sottopone alle medicazioni, piangendo in silenzio, con gli occhi chiusi e stringendo le mani della mamma, ma senza sottrarsi. Durante la medicazione ha preso l’abitudine di ripetere, come una litania, “Oh, God! Oh, Jesus!”, parole che, probabilmente, ha sentito dire dagli adulti e ora ripete nel momento del dolore.
E’ un percorso tutto in salita, purtroppo: i primi mesi sono molto duri, le ferite sembrano non ridursi mai, i tessuti esposti perdono plasma e proteine, Ansu dimagrisce e si gonfia per l’edema dei tessuti causato dall’ipoproteinemia, e diventa via via sempre più anemico. Riceve ben tre trasfusioni di sangue nei primi due mesi di ricovero, oltre al cibo iperproteico destinato ai bambini malnutriti. Col passare del tempo sia le condizioni generali, che la cute ustionata migliorano gradualmente, ora corre per i corridoi coperto solo da una maglietta, con una andatura traballante e ridicola. In poco tempo diventa la mascotte dell’ospedale: tutti, infermieri e pazienti, lo conoscono e lo salutano. Purtroppo però le medicazioni diventano una vera croce: logorato dal tanto tempo trascorso in ospedale è sempre più insofferente e comincia a ribellarsi. Quando mi vede arrivare col kit della medicazione, scappa via, inizia a strillare, si butta per terra o sotto il letto, scalcia, grida e piange. Ogni volta diventa una lotta. Per rendergliele più sopportabili lo premio al termine della procedura. Ho l’abitudine di portarmi dall’Italia delle tavolette di cioccolato, per i “momenti di crisi”. Pensando a questo bambino che alla sua età ha già dovuto soffrire così tanto, divido le tavolette in quadretti, li incarto e poi glieli dono come piccola consolazione al termine di ciascuna medicazione. Quando dimentico di portare con me la cioccolata, mi rivolge uno sguardo di rimprovero, pur senza mai chiedere nulla. Una volta, dopo una medicazione particolarmente dolorosa, Ansu si volta dall’altra parte e rifiuta di guardarmi. Come gli porgo il piccolo involto nel palmo aperto allontana la mia mano con rabbia. Mi guarda di sottecchi mentre rimetto il cioccolato in tasca e mi segue con lo sguardo quando esco dalla stanza e mi allontano lungo il corridoio. Fingo indifferenza vedendolo gironzolare dove sto lavorando per farsi notare, finché la sera, quando ormai non se lo aspetta più, torno da lui e, porgendogli il suo quadratino, gli chiedo “Lo vuoi, ora?” Un sorriso gli illumina gli occhi e pace è fatta.
Non sempre è così agevole. Una mattina in cui sono particolarmente stanca per aver lavorato in sala operatoria tutta la notte, mi reco da lui per la medicazione, e non lo trovo. Aspetto pazientemente per una decina di minuti, quindi lo vado a cercare; scorgo la madre che, agguantatolo per un braccio, lo trascina verso la stanza, mentre lui lotta per liberarsi. Continua poi a dimenarsi e sottrarsi, gridando e scalciando. In tre genitori tentano di calmarlo e tenerlo fermo, ma invano. Così la medicazione non si può proprio fare. Aspetto un po', cerco di rabbonirlo “Ansu, da bravo, dài che facciamo presto, lo sai bene che la dobbiamo fare… dopo ti do la cioccolata…”. Niente. Allora, senza una parola, raccolgo il materiale che avevo portato con me, e me ne vado. Dopo poco mi vengono a dire che si è calmato. Per tutta la giornata non torno a vederlo. Il giorno dopo continuo a ignorarlo, nonostante lo veda gironzolare timoroso e mortificato per i corridoi. Il mattino del terzo giorno la madre mi viene a dire che nelle due notti precedenti Ansu è rimasto seduto sul letto, incapace a prendere sonno, per la preoccupazione che le gambe non gli sarebbero più guarite per aver saltato le medicazioni. Mi viene da sorridere, ma non voglio ancora dargliela vinta. Poi, mentre sto facendo il giro visita in maternità, un’infermiera mi dice “Doc, c’è Ansu”. Mi giro e lo vedo sulla soglia, che si nasconde dietro lo stipite della porta. Dato che non mi dirigo da lui, piano piano si fa coraggio e, a testa bassa, con quella sua andatura traballante, a piccoli passi, si avvicina e, all’improvviso, senza una parola, mi tende la mano. Gliela stringo, quindi fa un cenno di assenso con la testa e se ne va. Poco dopo facciamo la medicazione. Questa volta un bacio e due quadretti di cioccolato.
Così tra alti e bassi, tra lotte e rappacificazioni, il nostro rapporto si consolida fino alla tanto agognata guarigione. Non cammina perfettamente, perché a causa di minime retrazioni cicatriziali posteriori che non è proprio stato possibile evitare, non riesce ad estendere completamente le gambe, ma a ciò si potrà porre rimedio con una plastica tra 6 mesi, un anno. Sta bene, le ustioni sono guarite e, dopo tanto tempo trascorso in ospedale e tanta sofferenza, finalmente può essere dimesso. Lo saluto e gli regalo tutta la cioccolata rimasta.