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mercoledì 27 settembre 2023
 
 

Come uscire dall’autismo

15/03/2012  Definire clinicamente l’autismo si rivela, da sempre, impresa ardua e complessa. Un nuovo approccio interviene sulla dimensione affettiva e corporea dei piccoli pazienti.

Il disturbo autistico rappresenta una delle patologie più complesse dell’infanzia perché chiama in causa tutti i fattori dello sviluppo determinando quadri clinici che, pur nella loro diversità, pongono al clinico notevoli difficoltà interpretative. Benché la causa del disturbo non sia ancora chiaramente definita, l’ipotesi più accreditata, tra clinici di diversa impostazione teorica, riguarda un’eziologia genetica o multifattoriale a impronta neurobiologica. Le principali difficoltà che caratterizzano il bambino con un disturbo dello spettro autistico coinvolgono l’area delle competenze sociali (con un uso distorto dei comportamenti non-verbali, della reciprocità relazionale e della condivisione emotiva), la qualità della comunicazione e la presenza di comportamenti insoliti tipo le stereotipie, i manierismi e gli interessi sensoriali. Queste difficoltà determinano interferenze in tutte le aree, sia cognitive sia affettive, e rendono la relazione e la comunicazione con il bambino autistico estremamente complessa.

Il genitore di un bambino autistico, autore di un interessantissimo libro che descrive la sua esperienza con il figlio, ha brillantemente definito la difficoltà comunicativa come una sorta di fondamentalismo sociale che rende ogni avvenimento unico, impedendo il senso della continuità dell’esistenza. Un fondamentalismo che rende impossibile, o comunque molto difficile, all’interlocutore un adeguato rapporto e che riduce la comunicazione a eventi frammentati non riconducibili a un’unica storia.

Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco

Ed è proprio su questo tipo di interferenza che ci siamo soffermati, attraverso le nostre ricerche, per capire le modalità attraverso le quali si dispiega il comportamento del bambino autistico, al fine di trovare gli strumenti utili ad agganciarlo. In attesa di un’esatta definizione dell’eziologia, gli sforzi del clinico devono essere rivolti a comprendere il tipo di funzionamento determinato dalla patologia autistica per trovare strumenti di valutazione, di comunicazione e di terapia idonei al contesto in cui opera. In questo tipo di ricerca i nostri sforzi si sono orientati, da molti anni ormai, verso una definizione delle differenze che caratterizzano i bambini appartenenti alla grande categoria disomogenea dei disturbi dello spettro autistico e alla caratterizzazione di un intervento che prendesse in considerazione la complessità del problema, non sottovalutando la specificità di ogni singolo bambino. Privilegiando, in un’ottica psicodinamica, una visione globale del piccolo e della sua patologia, abbiamo da sempre dato un’importanza fondamentale allo sviluppo affettivo come base per l’espletamento di tutte le funzioni cognitive.

I recenti studi in ambito evolutivo e le scoperte effettuate dai neuro-scienziati della scuola di Parma, hanno permesso di confermare la centralità della dimensione affettiva alla base di qualsiasi evoluzione del bambino dando un ulteriore impulso al nostro lavoro. Riteniamo, anche in base ai dati ottenuti con le nostre ricerche, che il deficit primario del bambino autistico riguardi la dimensione affettiva e non quella cognitiva, come le teorie di stampo cognitivo-comportamentale hanno affermato negli ultimi decenni. Questa divergenza di prospettiva teorica è responsabile di molti pregiudizi e incomprensioni e porta a sterili contrapposizioni che sono dovute, purtroppo, a una scarsa conoscenza del problema. Pensare ancora che la dimensione affettiva chiami in causa necessariamente una colpevolizzazione delle madri, significa misconoscere gli sviluppi della scienza in ambito evolutivo ed eludere la fatica di revisionare le patologie in base alle nuove conoscenze.

Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco

Come abbiamo avuto modo di sottolineare in diverse occasioni, anche le teorie di stampo psicodinamico più criticate dai loro detrattori, hanno posto l’accento sulla difficoltà del bambino ad attivare un’adeguata responsività nella madre e non solo su carenze genitoriali. Parlare di dimensione affettiva, oggi, significa attribuire valore al processo di sintonizzazione che viene a crearsi fin dai primi scambi di vita e che dipende dalla capacità, generalmente innata nel bambino, di far comprendere i propri bisogni attraverso lo scambio corporeo che la madre può modulare attribuendogli anche un significato sociale.

Se il bambino non è in grado di stimolare la risposta della madre, quest’ultima si troverà a non poter corrispondere ai bisogni del bambino e ciò determinerà un’interazione sempre più difficile e un’impossibilità comunicativa. L’impossibilità o la seria difficoltà a sintonizzarsi con le figure di riferimento impedisce il raggiungimento dell’empatia intesa come base imprescindibile per qualsiasi relazione con gli altri e per qualunque processo di apprendimento.

Come abbiamo evidenziato attraverso la nostra ricerca sull’efficacia della terapia, sostenere la dimensione affettiva significa lavorare per l’ampliamento delle condotte cognitive e per l’apertura alla dimensione sociale. Il deficit cognitivo viene considerato, in questa prospettiva, secondario a quello affettivo e a esso strettamente correlato nella misura in cui il bambino può colmare il proprio gap solo quando è in grado di condividere l’attenzione con l’altro imparando, come avviene nel corso dello sviluppo, ad apprendere dall’esperienza.

È interessante sottolineare, a questo riguardo, il fatto che, nella ricerca da noi condotta su un gruppo di 135 bambini, la presenza di ritardo mentale è stata inferiore a quella riportata nel Dsm-IV, attestandosi al 44% contro il 75%. Ovviamente la differenza è determinata dal percorso terapeutico, che non ha creato, ma semplicemente ha fatto emergere le potenzialità intellettive che erano presenti ma inespresse. Relativamente all’efficacia della terapia, infatti, è stato possibile effettuare su un campione di 79 bambini un re-test attraverso l’Ados-G e la Leiter- R, e si è potuto riscontrare un miglioramento significativo per tutto il campione dopo due anni di terapia, tale da permettere un cambiamento di diagnosi nel 40% dei casi e un miglioramento tale da consentire l’uscita dall’autismo, secondo la diagnosi Ados-G, in circa il 24% dei casi.

Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco

Partendo da questi presupposti abbiamo concretizzato un progetto terapeutico, il “Progetto Tartaruga”, presentato il 12 novembre 2011 al Palazzo dei Congressi di Roma nell’ambito del convegno “Autismo infantile. La centralità della diagnosi precoce per un progetto terapeutico mirato”, alla presenza di circa duemila operatori (è a disposizione, sul sito www.ortofonolo gia.it, tutto il materiale fornito al convegno, con video degli interventi).

Il “Progetto Tartaruga”, nato per rispondere (in regime di convenzione) alle esigenze terapeutiche dei bambini con diagnosi di autismo e per supportare le famiglie, ha l’obiettivo di coniugare un’interpretazione psicodinamica dei comportamenti del bambino autistico con una lettura cognitiva delle sue abilità e competenze. Il nostro approccio terapeutico viene definito psicodinamico e non psicoanalitico, per l’importanza che attribuiamo, sia in senso teorico sia come strumento tecnico, all’utilizzazione del corpo e all’interazione diretta con il bambino.

Trattandosi di un disturbo che interviene precocemente e che riguarda tutte le aree dello sviluppo, riteniamo che l’obiettivo primario sia quello di lavorare sulle componenti sensoriali, integre ma non integrate tra loro, per attivare nel bambino quel processo di sintonizzazione degli stati affettivi che risulta deficitario e che costituisce, invece, un elemento imprescindibile per qualsiasi interazione con l’altro. Come già anticipato, le principali difficoltà del bambino con un disturbo autistico riguardano la comunicazione, e ciò rende davvero complessa qualunque forma di interazione, vanificando o rendendo poco efficaci gli strumenti terapeutici messi in campo.

Una delle principali difficoltà nella ricerca di strategie terapeutiche è da attribuire, oltre che alla specificità del problema, alla notevole differenza esistente tra i bambini inquadrati nella stessa categoria diagnostica. Un’altra criticità, superata in parte solo negli ultimi anni, riguarda la difficoltà a utilizzare degli strumenti diagnostici con bambini la cui principale carenza afferisce proprio all’interazione. Infatti, nonostante siano ormai a disposizione strumenti idonei a valutare il bambino in assenza di linguaggio verbale e con una forte carenza nell’interazione, permane la difficoltà interpretativa dell’esaminatore legata ai momenti di isolamento che possono essere attivati dal contesto diagnostico. L’osservazione libera del bambino in un contesto ludico e dell’interazione con i genitori costituiscono uno strumento valutativo imprescindibile per un adeguato inquadramento clinico che intenda sottolineare non solo le carenze ma anche le potenzialità dell’individuo.

Non si sottolinea mai abbastanza la necessità di una valutazione che renda ragione delle potenzialità del singolo bambino, al fine di costruire un progetto terapeutico che risponda alle sue reali necessità e non a prescrizioni generali riguardanti il disturbo. La non adeguata comprensione del problema ha spesso dato l’avvio a interventi, unilaterali nei loro obiettivi, che si sono posti di volta in volta come la soluzione miracolistica e che hanno creato ulteriori confusioni sulle strategie terapeutiche adottabili. Mettendo insieme risposte diversificate alle varie manifestazioni del disturbo, il “Progetto Tartaruga” si è posto come obiettivo primario la ricerca di aree e campi di lavoro che favorissero l’integrazione delle varie componenti dello sviluppo.

Per tutti i bambini inseriti nel “Progetto Tartaruga”, infatti, è previsto un percorso terapeutico personalizzato, in seguito a un attento studio del singolo caso e dopo una valutazione attraverso strumenti standardizzati quali l’Ados-G, il Cars e la Leiter- R, e una serie di osservazioni compiute in vari contesti, atte a verificare lo sviluppo cognitivo, linguistico, espressivo e ricettivo, la capacità organizzativa e adattiva, il gioco funzionale e simbolico, il grafismo, il gesto di indicare, lo sviluppo psicomotorio, emotivo e sociale, la comprensione degli stati mentali ed emotivi, la consapevolezza di sé e la percezione sonora.

Il tetto di pazienti presi in carico all’interno del “Progetto Tartaruga” attualmente raggiunge i 135 soggetti, anche se nel corso dell’anno molte altre famiglie si rivolgono al nostro servizio di diagnosi e consulenza per una valutazione neuropsicologica e psicodiagnostica aumentando notevolmente il numero dei bambini esaminati con gli stessi parametri.

Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco

La valutazione viene formulata dopo un primo colloquio anamnestico e una serie di incontri necessari per la somministrazione di test specifici, in un contesto di relazione clinica ed emotiva che coinvolge l’equipe, il bambino e i genitori. L’Ados-G (Autism diagnostic observation schedule- Generic) è basato sull’osservazione dei comportamenti del bambino durante attività semistrutturate. La somministrazione prevede un’iniziale periodo di familiarizzazione e viene effettuata in presenza di un genitore o di chi si occupa del bambino.

Nella procedura diagnostica e di monitoraggio dello sviluppo del soggetto viene anche adottato il Childhood autism rating scale (Cars; Schopler, e coll., 1988) con bambini di più di due anni. Tutti i pazienti del “Progetto Tartaruga”, e coloro che si rivolgono al nostro servizio diagnosi, sono inoltre testati con la Leiter international performance scale - Revised (Leiter-R; Gale H. Roid e Lucy J. Miller), un test di valutazione della capacità intellettiva non verbale, della memoria, dell’attenzione, che può essere somministrata a soggetti che abbiano un’età compresa tra i 2 e i 21 anni. La Leiter- R è per noi uno strumento molto importante perché, oltre a misurare il Quoziente Intellettivo, pone l’accento sull’intelligenza fluida, ossia quella componente dell’intelligenza che non è soggetta a influenze culturali, sociali o educative.

Per una visione globale del bambino e per poter effettuare un trattamento terapeutico individualizzato, oltre a un osservazione mediante l’utilizzo degli strumenti standardizzati sopra citati, ci avvaliamo, come già detto, anche dell’osservazione dell’attività spontanea del bambino e della sua interazione con l’ambiente. In tal senso vengono effettuate delle osservazioni di gruppo, per valutare, oltre il profilo psicomotorio del singolo, anche le modalità di interazione con i coetanei. Si osserva il bambino nella sua globalità e si mette in relazione la sua età cronologica con le tappe che ha raggiunto nelle varie funzioni: l’attività motoria grossolana e fine-adattativa, l’evoluzione del linguaggio e il comportamento personale e sociale.

Per ogni bambino del “Progetto Tartaruga” sono previste, inoltre, durante l’anno almeno due valutazioni che comportano da un lato l’osservazione della maturazione globale del bambino, la sua capacità di adattarsi, riconoscendo e accettando limiti e regole, dall’altro la capacità di apprendimento sulla base dello sviluppo cognitivo, di abilità sul piano grafico, simbolico e linguistico. Le aree indagate riguardano gli aspetti comportamentali, la motricità fine, la comprensione linguistica e l’espressione orale, la metacognizione e altre abilità cognitive (memoria, prassi, orientamento). Gli strumenti utilizzati (standardizzati e non) e i risultati ottenuti dall’osservazione sono traducibili in parametri didattici, comprensibili e utilizzabili anche all’interno del contesto scolastico. La modalità di osservazione e diagnosi del “Progetto Tartaruga” consente, dunque, di valutare non solo le disabilità del bambino, ma anche i punti di forza e le potenzialità che caratterizzano il soggetto e il suo contesto familiare e ambientale. Risorse fondamentali per muoversi in quella che Vygotskij (1934) definisce «zona di sviluppo prossimale».

Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco

Per quanto riguarda la terapia, nel “Progetto Tartaruga” abbiamo sempre più sistematizzato un approccio che, partendo da una prospettiva psicodinamica, utilizzasse gli strumenti atti a incontrare il bambino nei luoghi in cui la sua patologia si manifesta e cioè, fondamentalmente, nella sua corporeità. L’esperienza del gruppo risulta fondamentale per favorire quella “simulazione incarnata” (Gallese, Università di Parma) che può essere attivata solo nell’incontro reale con l’altro bambino e con un adulto in grado di contenere l’espressione delle aree arcaiche dello sviluppo. La funzione di rispecchiamento espletata dal gruppo di bambini è generatrice di curiosità, e il contenimento fornito dagli adulti sulle interazioni in corso nel gruppo facilita al bambino l’apertura verso l’esterno.

Particolarmente significativo, al riguardo, è il gruppo condotto con bambini e genitori per riscoprire insieme il senso e il piacere del gioco e della condivisione. L’approccio corporeo, nell’iter terapeutico del progetto, viene realizzato anche attraverso altre modalità: la terapia in acqua, la terapia assistita con gli animali, il massaggio pediatrico e l’osteopatia, che si rivolgono alle tensioni corporee e che prevedono un avvicinamento nuovo del genitore al corpo del figlio. Molto importante è la fase iniziale perché le varie procedure vengono affiancate per stimolare contemporaneamente il soggetto da diverse prospettive e per facilitare al genitore il conseguimento di nuove modalità comunicative con il bambino.

Tutte queste tecniche perseguono, contemporaneamente, l’obiettivo di rendere i genitori partecipi al processo terapeutico e consentono una maggiore comprensione di quei comportamenti apparentemente bizzarri che sono fonte di notevole frustrazione per tutti. Esistono ovviamente, quando il bambino è in grado di accettarli, dei momenti terapeutici dedicati ad attività cognitive condotte individualmente e in gruppo, per favorire anche l’espressione grafica, spesso rifiutata, per ampliare la strutturazione frasale o per sostenere l’andamento didattico. L’intervento logopedico viene utilizzato solo quando il bambino, attraverso gli altri contesti terapeutici, riesce a esprimersi anche in ambito verbale. Un lavoro cognitivo proposto troppo presto rischia, infatti, di limitare le future potenzialità del bambino perché non può basarsi sulla sua motivazione a comunicare, ma sulla necessità esterna di rispondere a degli standard. La ripetizione di parole o fonemi non adeguatamente interiorizzati e contestualizzati può inoltre amplificare il meccanismo ossessivo nel quale spesso il bambino autistico si incastra per l’incapacità di accettare il nuovo. Tutte queste proposte terapeutiche, oltre a condividere l’obiettivo di facilitare al bambino il contatto con l’esterno, si pongono anche la finalità di costruire i contesti da cui può prendere avvio la comunicazione verbale, come manifestazione della propria pensabilità.

Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco

 
 
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