Il disturbo autistico rappresenta una delle patologie
più complesse dell’infanzia perché chiama in causa
tutti i fattori dello sviluppo determinando quadri
clinici che, pur nella loro diversità, pongono al clinico
notevoli difficoltà interpretative. Benché la causa del
disturbo non sia ancora chiaramente definita, l’ipotesi
più accreditata, tra clinici di diversa impostazione teorica,
riguarda un’eziologia genetica o multifattoriale a
impronta neurobiologica. Le principali difficoltà che
caratterizzano il bambino con un disturbo dello spettro
autistico coinvolgono l’area delle competenze sociali
(con un uso distorto dei comportamenti non-verbali,
della reciprocità relazionale e della condivisione emotiva),
la qualità della comunicazione e la presenza di
comportamenti insoliti tipo le stereotipie, i manierismi
e gli interessi sensoriali. Queste difficoltà determinano
interferenze in tutte le aree, sia cognitive sia affettive, e
rendono la relazione e la comunicazione con il bambino
autistico estremamente complessa.
Il genitore di un bambino autistico, autore di un interessantissimo
libro che descrive la sua esperienza con il
figlio, ha brillantemente definito la difficoltà comunicativa
come una sorta di fondamentalismo sociale che
rende ogni avvenimento unico, impedendo il senso della
continuità dell’esistenza. Un fondamentalismo che
rende impossibile, o comunque molto difficile, all’interlocutore
un adeguato rapporto e che riduce la comunicazione
a eventi frammentati non riconducibili a
un’unica storia.
Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco
Ed è proprio su questo tipo di interferenza che ci siamo
soffermati, attraverso le nostre ricerche, per capire
le modalità attraverso le quali si dispiega il comportamento
del bambino autistico, al fine di trovare gli strumenti
utili ad agganciarlo. In attesa di un’esatta definizione
dell’eziologia, gli sforzi del clinico devono essere
rivolti a comprendere il tipo di funzionamento determinato
dalla patologia autistica per trovare strumenti
di valutazione, di comunicazione e di terapia idonei al
contesto in cui opera. In
questo tipo di ricerca i nostri
sforzi si sono orientati,
da molti anni ormai,
verso una definizione delle
differenze che caratterizzano
i bambini appartenenti
alla grande categoria
disomogenea dei disturbi
dello spettro autistico
e alla caratterizzazione
di un intervento che prendesse
in considerazione la
complessità del problema,
non sottovalutando la
specificità di ogni singolo
bambino. Privilegiando,
in un’ottica psicodinamica,
una visione globale
del piccolo e della sua patologia,
abbiamo da sempre
dato un’importanza
fondamentale allo sviluppo
affettivo come base
per l’espletamento di tutte
le funzioni cognitive.
I recenti studi in ambito
evolutivo e le scoperte
effettuate dai neuro-scienziati
della scuola di Parma,
hanno permesso di
confermare la centralità
della dimensione affettiva
alla base di qualsiasi evoluzione
del bambino dando
un ulteriore impulso al
nostro lavoro. Riteniamo,
anche in base ai dati ottenuti
con le nostre ricerche,
che il deficit primario
del bambino autistico
riguardi la dimensione affettiva
e non quella cognitiva,
come le teorie di
stampo cognitivo-comportamentale
hanno affermato
negli ultimi decenni.
Questa divergenza di prospettiva
teorica è responsabile
di molti pregiudizi
e incomprensioni e porta
a sterili contrapposizioni
che sono dovute, purtroppo,
a una scarsa conoscenza
del problema. Pensare
ancora che la dimensione
affettiva chiami in causa
necessariamente una colpevolizzazione
delle madri,
significa misconoscere
gli sviluppi della scienza
in ambito evolutivo ed
eludere la fatica di revisionare
le patologie in base
alle nuove conoscenze.
Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco
Come abbiamo avuto
modo di sottolineare in diverse
occasioni, anche le
teorie di stampo psicodinamico
più criticate dai
loro detrattori, hanno posto
l’accento sulla difficoltà
del bambino ad attivare
un’adeguata responsività
nella madre e non solo su
carenze genitoriali. Parlare
di dimensione affettiva,
oggi, significa attribuire
valore al processo di
sintonizzazione che viene
a crearsi fin dai primi
scambi di vita e che dipende
dalla capacità, generalmente
innata nel bambino,
di far comprendere i
propri bisogni attraverso
lo scambio corporeo che
la madre può modulare attribuendogli
anche un significato
sociale.
Se il bambino non è in
grado di stimolare la risposta
della madre,
quest’ultima si troverà a
non poter corrispondere
ai bisogni del bambino e
ciò determinerà un’interazione
sempre più difficile
e un’impossibilità comunicativa.
L’impossibilità
o la seria difficoltà a sintonizzarsi
con le figure di
riferimento impedisce il
raggiungimento dell’empatia
intesa come base imprescindibile
per qualsiasi
relazione con gli altri e
per qualunque processo
di apprendimento.
Come abbiamo evidenziato
attraverso la nostra
ricerca sull’efficacia della
terapia, sostenere la dimensione
affettiva significa
lavorare per l’ampliamento
delle condotte cognitive
e per l’apertura alla
dimensione sociale. Il
deficit cognitivo viene
considerato, in questa prospettiva,
secondario a
quello affettivo e a esso
strettamente correlato nella
misura in cui il bambino
può colmare il proprio
gap solo quando è in grado
di condividere l’attenzione
con l’altro imparando,
come avviene nel corso
dello sviluppo, ad apprendere
dall’esperienza.
È interessante sottolineare,
a questo riguardo,
il fatto che, nella ricerca
da noi condotta su un
gruppo di 135 bambini, la
presenza di ritardo mentale
è stata inferiore a quella
riportata nel Dsm-IV, attestandosi
al 44% contro
il 75%. Ovviamente la differenza
è determinata dal
percorso terapeutico, che non ha creato, ma semplicemente
ha fatto emergere
le potenzialità intellettive
che erano presenti ma
inespresse. Relativamente
all’efficacia della terapia,
infatti, è stato possibile effettuare
su un campione
di 79 bambini un re-test attraverso
l’Ados-G e la Leiter-
R, e si è potuto riscontrare
un miglioramento significativo
per tutto il
campione dopo due anni
di terapia, tale da permettere
un cambiamento di
diagnosi nel 40% dei casi
e un miglioramento tale
da consentire l’uscita
dall’autismo, secondo la
diagnosi Ados-G, in circa
il 24% dei casi.
Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco
Partendo da questi presupposti
abbiamo concretizzato
un progetto terapeutico,
il “Progetto Tartaruga”,
presentato il 12
novembre 2011 al Palazzo
dei Congressi di Roma
nell’ambito del convegno
“Autismo infantile. La
centralità della diagnosi
precoce per un progetto
terapeutico mirato”, alla
presenza di circa duemila
operatori (è a disposizione,
sul sito www.ortofonolo
gia.it, tutto il materiale
fornito al convegno, con
video degli interventi).
Il “Progetto Tartaruga”,
nato per rispondere
(in regime di convenzione)
alle esigenze terapeutiche
dei bambini con diagnosi
di autismo e per supportare
le famiglie, ha
l’obiettivo di coniugare
un’interpretazione psicodinamica
dei comportamenti
del bambino autistico
con una lettura cognitiva
delle sue abilità e competenze.
Il nostro approccio
terapeutico viene definito
psicodinamico e non
psicoanalitico, per l’importanza
che attribuiamo,
sia in senso teorico
sia come strumento tecnico,
all’utilizzazione del
corpo e all’interazione diretta
con il bambino.
Trattandosi di un disturbo
che interviene precocemente
e che riguarda
tutte le aree dello sviluppo,
riteniamo che l’obiettivo
primario sia quello di
lavorare sulle componenti
sensoriali, integre ma
non integrate tra loro,
per attivare nel bambino
quel processo di sintonizzazione
degli stati affettivi
che risulta deficitario e
che costituisce, invece, un
elemento imprescindibile
per qualsiasi interazione
con l’altro. Come già anticipato,
le principali difficoltà
del bambino con un
disturbo autistico riguardano
la comunicazione, e
ciò rende davvero complessa
qualunque forma
di interazione, vanificando
o rendendo poco efficaci
gli strumenti terapeutici
messi in campo.
Una delle principali difficoltà
nella ricerca di strategie
terapeutiche è da attribuire,
oltre che alla specificità
del problema, alla
notevole differenza esistente
tra i bambini inquadrati
nella stessa categoria
diagnostica. Un’altra
criticità, superata in parte
solo negli ultimi anni, riguarda
la difficoltà a utilizzare
degli strumenti diagnostici
con bambini la
cui principale carenza afferisce
proprio all’interazione.
Infatti, nonostante
siano ormai a disposizione
strumenti idonei a valutare
il bambino in assenza
di linguaggio verbale e
con una forte carenza
nell’interazione, permane
la difficoltà interpretativa
dell’esaminatore legata
ai momenti di isolamento
che possono essere attivati
dal contesto diagnostico.
L’osservazione libera
del bambino in un contesto
ludico e dell’interazione
con i genitori costituiscono
uno strumento valutativo
imprescindibile per
un adeguato inquadramento
clinico che intenda
sottolineare non solo
le carenze ma anche le potenzialità
dell’individuo.
Non si sottolinea mai
abbastanza la necessità di
una valutazione che renda
ragione delle potenzialità
del singolo bambino,
al fine di costruire un progetto
terapeutico che risponda
alle sue reali necessità
e non a prescrizioni
generali riguardanti il
disturbo. La non adeguata
comprensione del problema
ha spesso dato l’avvio
a interventi, unilaterali
nei loro obiettivi, che si
sono posti di volta in volta
come la soluzione miracolistica
e che hanno creato
ulteriori confusioni sulle
strategie terapeutiche
adottabili. Mettendo insieme
risposte diversificate alle
varie manifestazioni del
disturbo, il “Progetto Tartaruga”
si è posto come
obiettivo primario la ricerca
di aree e campi di lavoro
che favorissero l’integrazione
delle varie componenti
dello sviluppo.
Per tutti i bambini inseriti
nel “Progetto Tartaruga”,
infatti, è previsto un
percorso terapeutico personalizzato,
in seguito a
un attento studio del singolo
caso e dopo una valutazione
attraverso strumenti
standardizzati quali
l’Ados-G, il Cars e la Leiter-
R, e una serie di osservazioni
compiute in vari
contesti, atte a verificare
lo sviluppo cognitivo, linguistico,
espressivo e ricettivo,
la capacità organizzativa
e adattiva, il gioco funzionale
e simbolico, il grafismo,
il gesto di indicare,
lo sviluppo psicomotorio,
emotivo e sociale, la comprensione
degli stati mentali
ed emotivi, la consapevolezza
di sé e la percezione
sonora.
Il tetto di pazienti presi
in carico all’interno del
“Progetto Tartaruga” attualmente
raggiunge i 135
soggetti, anche se nel corso
dell’anno molte altre famiglie
si rivolgono al nostro
servizio di diagnosi e
consulenza per una valutazione
neuropsicologica e
psicodiagnostica aumentando
notevolmente il numero
dei bambini esaminati
con gli stessi parametri.
Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco
La valutazione viene
formulata dopo un primo
colloquio anamnestico e
una serie di incontri necessari
per la somministrazione
di test specifici, in
un contesto di relazione
clinica ed emotiva che
coinvolge l’equipe, il bambino
e i genitori. L’Ados-G (Autism diagnostic
observation schedule-
Generic) è basato sull’osservazione
dei comportamenti
del bambino durante
attività semistrutturate.
La somministrazione prevede
un’iniziale periodo
di familiarizzazione e viene
effettuata in presenza
di un genitore o di chi si
occupa del bambino.
Nella procedura diagnostica
e di monitoraggio
dello sviluppo del soggetto
viene anche adottato
il Childhood autism rating
scale (Cars; Schopler,
e coll., 1988) con bambini
di più di due anni. Tutti
i pazienti del “Progetto
Tartaruga”, e coloro che
si rivolgono al nostro servizio
diagnosi, sono inoltre
testati con la Leiter international
performance scale - Revised
(Leiter-R; Gale H.
Roid e Lucy J. Miller), un
test di valutazione della capacità
intellettiva non verbale,
della memoria,
dell’attenzione, che può
essere somministrata a
soggetti che abbiano
un’età compresa tra i 2 e i
21 anni. La Leiter- R è per
noi uno strumento molto
importante perché, oltre
a misurare il Quoziente
Intellettivo, pone l’accento
sull’intelligenza fluida,
ossia quella componente
dell’intelligenza che non
è soggetta a influenze culturali,
sociali o educative.
Per una visione globale
del bambino e per poter
effettuare un trattamento
terapeutico individualizzato,
oltre a un osservazione
mediante l’utilizzo degli
strumenti standardizzati
sopra citati, ci avvaliamo,
come già detto, anche
dell’osservazione dell’attività
spontanea del bambino
e della sua interazione
con l’ambiente. In tal senso
vengono effettuate delle
osservazioni di gruppo,
per valutare, oltre il profilo
psicomotorio del singolo,
anche le modalità di interazione
con i coetanei.
Si osserva il bambino nella
sua globalità e si mette in
relazione la sua età cronologica
con le tappe che ha
raggiunto nelle varie funzioni:
l’attività motoria
grossolana e fine-adattativa,
l’evoluzione del linguaggio
e il comportamento
personale e sociale.
Per ogni bambino del
“Progetto Tartaruga” sono
previste, inoltre, durante
l’anno almeno due
valutazioni che comportano
da un lato l’osservazione
della maturazione globale
del bambino, la sua
capacità di adattarsi, riconoscendo
e accettando limiti
e regole, dall’altro la
capacità di apprendimento
sulla base dello sviluppo
cognitivo, di abilità sul
piano grafico, simbolico e
linguistico. Le aree indagate
riguardano gli aspetti
comportamentali, la
motricità fine, la comprensione
linguistica e
l’espressione orale, la metacognizione
e altre abilità
cognitive (memoria,
prassi, orientamento). Gli
strumenti utilizzati (standardizzati
e non) e i risultati
ottenuti dall’osservazione
sono traducibili in
parametri didattici, comprensibili
e utilizzabili anche
all’interno del contesto
scolastico. La modalità
di osservazione e diagnosi
del “Progetto Tartaruga”
consente, dunque,
di valutare non solo le disabilità
del bambino, ma
anche i punti di forza e le
potenzialità che caratterizzano
il soggetto e il suo
contesto familiare e ambientale.
Risorse fondamentali
per muoversi in
quella che Vygotskij
(1934) definisce «zona di
sviluppo prossimale».
Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco
Per quanto riguarda la
terapia, nel “Progetto Tartaruga”
abbiamo sempre
più sistematizzato un approccio
che, partendo da
una prospettiva psicodinamica,
utilizzasse gli strumenti
atti a incontrare il
bambino nei luoghi in cui
la sua patologia si manifesta
e cioè, fondamentalmente,
nella sua corporeità.
L’esperienza del gruppo
risulta fondamentale
per favorire quella “simulazione
incarnata” (Gallese,
Università di Parma)
che può essere attivata solo
nell’incontro reale con
l’altro bambino e con un
adulto in grado di contenere
l’espressione delle
aree arcaiche dello sviluppo.
La funzione di rispecchiamento
espletata dal
gruppo di bambini è generatrice
di curiosità, e il
contenimento fornito dagli
adulti sulle interazioni
in corso nel gruppo facilita
al bambino l’apertura
verso l’esterno.
Particolarmente significativo,
al riguardo, è il
gruppo condotto con
bambini e genitori per riscoprire
insieme il senso e
il piacere del gioco e della
condivisione. L’approccio
corporeo, nell’iter terapeutico
del progetto, viene
realizzato anche attraverso
altre modalità: la terapia
in acqua, la terapia
assistita con gli animali, il
massaggio pediatrico e
l’osteopatia, che si rivolgono
alle tensioni corporee
e che prevedono un avvicinamento
nuovo del genitore
al corpo del figlio.
Molto importante è la fase
iniziale perché le varie
procedure vengono affiancate
per stimolare contemporaneamente
il soggetto
da diverse prospettive e
per facilitare al genitore il
conseguimento di nuove
modalità comunicative
con il bambino.
Tutte queste tecniche
perseguono, contemporaneamente,
l’obiettivo di
rendere i genitori partecipi
al processo terapeutico
e consentono una maggiore
comprensione di quei
comportamenti apparentemente
bizzarri che sono
fonte di notevole frustrazione
per tutti. Esistono ovviamente,
quando il bambino
è in grado di accettarli,
dei momenti terapeutici
dedicati ad attività cognitive
condotte individualmente
e in gruppo,
per favorire anche l’espressione
grafica, spesso rifiutata,
per ampliare la strutturazione
frasale o per sostenere
l’andamento didattico.
L’intervento logopedico
viene utilizzato solo
quando il bambino, attraverso
gli altri contesti terapeutici,
riesce a esprimersi
anche in ambito verbale.
Un lavoro cognitivo
proposto troppo presto rischia,
infatti, di limitare le
future potenzialità del
bambino perché non può
basarsi sulla sua motivazione
a comunicare, ma sulla
necessità esterna di rispondere
a degli standard. La
ripetizione di parole o fonemi
non adeguatamente
interiorizzati e contestualizzati
può inoltre amplificare
il meccanismo ossessivo
nel quale spesso il bambino
autistico si incastra
per l’incapacità di accettare
il nuovo.
Tutte queste proposte
terapeutiche, oltre a condividere
l’obiettivo di facilitare
al bambino il contatto
con l’esterno, si pongono
anche la finalità di costruire
i contesti da cui
può prendere avvio la comunicazione
verbale, come
manifestazione della
propria pensabilità.
Magda Di Renzo,
Federico Bianchi di Castelbianco