Al giovane serio e virtuoso che dedica cinque ore al giorno a pratiche devozionali per timore di non salvarsi (n. 12), vorrei dire che è in buona compagnia. Sant’Ignazio di Loyola arrivò a pregare sette ore al giorno, passando parte delle rimanenti in confessionale (dal lato del penitente) a sviscerare i suoi scrupoli. Li superò giungendo alla convinzione che il cristiano deve preoccuparsi di dare gloria a Dio più che di salvare l’anima: confidò a un confratello che, se avesse dovuto scegliere tra morire subito in stato di grazia andando così in Paradiso o vivere ancora per operare alla diffusione del Regno di Dio morendo poi in stato di peccato e dannandosi, avrebbe scelto la seconda possibilità. Persino san Francesco di Sales, il più dolce dei dottori della Chiesa, fu (in gioventù) tanto ossessionato dall’idea di non salvarsi che dovette apparirgli Gesù in persona per dirgli: guarda che il mio nome – Jeoshua – significa Salvatore e non Condannatore!
Per non portare altri esempi mi limiterò a citare santa Teresa di Calcutta secondo cui «i santi si ritenevano dei terribili criminali, e non era una posa, lo credevano davvero». Scrupoli e sensi di colpa sembrano accanirsi con chi prende sul serio il proprio perfezionamento spirituale e lasciare tranquilli coloro che non si elevano al di sopra di un orizzonte esclusivamente materiale. I maestri spirituali spiegano questo paradosso con l’immagine della polvere presente in una camera, la quale rimane invisibile finché la stanza è al buio e diventa tanto più evidente quanto maggiore è la luce che vi penetra.
Per non lasciarsi sopraffare dall’angoscia, potrebbe tornare utile quanto mi disse un anziano sacerdote. Dopo che lo avevo tediato, in confessione, con i miei scrupoli devozionistici, sbottò con una certa asprezza: «Ma lei non ce l’ha un lavoro? Si preoccupi di fare bene quello!». Penso che il consiglio possa valere anche per questo giovane: con cinque ore di tempo libero al giorno perché non dedicarne una parte al volontariato? Prestando a Dio le proprie mani, i propri piedi, la propria voce per consentirgli di consolare qualcuno di quei poveri in cui egli si identifica, imparerà a de-centrarsi da sé stesso e sarà forse meno preoccupato del tremendo giudizio divino. Il modo più sicuro di salvare sé stessi è impegnarsi a salvare gli altri. E in Matteo 25 il giudizio finale verterà sulle opere di misericordia e non sulle pratiche devozionali.
Una parte del tempo, poi, potrebbe essere dedicata a qualche lettura che aiuti ad avere un’immagine meno sinistra di Dio. Mi permetto di suggerire il libretto di Anselm Grun La fede dei cristiani (nel cap. 6 parla del senso di colpa da cui Gesù ci ha liberati). Oppure il romanzo di François Mauriac La farisea, storia di una donna devota che, per quasi tutta la sua vita, aveva creduto, da buona farisea appunto, di doversi conquistare il Cielo a forza di meriti. Il romanzo si conclude con la sua “conversione” espressa dalle parole: «Alla sera della sua vita aveva finalmente scoperto che non bisogna assomigliare a un servitore orgoglioso, preoccupato di abbagliare il padrone pagando il suo debito fino all’ultimo obolo e che il Padre nostro non s’aspetta da noi che si sia i contabili minuziosi dei nostri meriti. Ella sapeva adesso che non importa meritare, bensì amare».
ALDO PALAZZO
Grazie, caro Aldo, per questa riflessione. Ho deciso di pubblicarla quasi tutta, benché lunga, perché può offrire spunti di riflessione anche ad altri. E poi Mauriac è uno dei miei scrittori preferiti... Ringrazio anche Anna Maria per quanto mi ha scritto su san Francesco di Sales (prendendo spunto da un suo studio pubblicato nell’Archivio italiano per la storia della pietà, volumi X e XIV).
In particolare, Anna Maria ricorda che il giovane san Francesco di Sales, studente a Parigi, si era convinto, a 19 anni, di essere destinato alla dannazione. «Per due mesi si è ridotto a non mangiare più, a non dormire, incapace di continuare a studiare. Inutili gli interventi di chi cercava di aiutarlo e di convincerlo, in particolare il suo confessore... Durante questa prova terribile, scrisse Atto di abbandono (XXII,19- 20) che io non sono mai riuscita a leggere senza piangere. Alla fine, inginocchiato davanti alla Madonna nera, nella chiesa di St. Etienne des Grès, ricevette da Maria l’aiuto: sentì cadere da sé “come scaglie di lebbra” e si convinse che il Signore voleva la sua salvezza». In seguito, continua Anna Maria, «diventato prete e poi vescovo, si adoperò perché altri non corressero lo stesso rischio e scrisse al Papa di non permettere o favorire le dispute che c’erano allora sull’argomento, anche fra i teologi cattolici. Il Papa fortunatamente gli diede retta».
Faccio mie le parole conclusive rivolte da Anna Maria a Stefano, estendendole a tutti i lettori che vivono una pena simile: «Nell’augurarti ogni bene, ti ripeto: Dio ti ama, ti segue, ti aiuta. Dagli retta, entra nella sua gioia!».