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giovedì 12 settembre 2024
 
 

Come vincere un sistema iperprotettivo

14/03/2011  Controllare i figli e, parallelamente, consentire loro di prendere decisioni autonome, si rivela la via educativa da privilegiare.

Un numero crescente di ricerche e sperimentazioni cliniche mostra che i bambini e gli adolescenti che sono in grado di tenere testa a situazioni di stress sono stati sottoposti a quantità notevoli di rischi e responsabilità durante la loro crescita (Lynch, Hurford & Cole, 2002; Ungar, 2009). Questa connessione tra capacità di recupero, abilità nel tenere testa alle avversità e ad avere successo, e il bisogno del bambino di autonomia nel compiere alcuni compiti come camminare o prendere da solo un autobus per andare a scuola, condividere mansioni casalinghe, assumersi la responsabilità per le sue azioni e per quelle di altri e soffrire le conseguenze delle azioni di un altro, fa capire che un modello genitoriale iperprotettivo può minacciare il sano sviluppo psicosociale dei piccoli (Elkind, 2001; Kadson & DiGeronimo, 2004; Ungar, 2007; 2009).

In questo breve articolo, mostrerò come le azioni dei genitori che interferiscono troppo con l’esigenza dei bambini ad assumersi dei rischi e che proteggono i figli senza necessità dalle conseguenze dell’esposizione al rischio possono essere cambiate attraverso una terapia.

La protezione da parte di un genitore dovrebbe essere esercitata in misura sufficiente da mantenere la sicurezza del figlio, ma non in modo così soverchiante da diventare emotivamente gravoso (Muris, Loxton, Neumann, du Plessis, King & Ollendick, 2006). Ci sono tre aspetti del sistema familiare da considerare quando si valutano gli schemi del sistema educativo percepito come iperprotettivo:  

  1. distinguere il controllo concentrato sull’emotività da quello focalizzato, invece, sul comportamento;
  2. valutare l’oggettivo livello di rischio che un bambino affronta all’interno della sua comunità;
  3. ed esplorare accuratamente il significato che tanto il bambino quanto il genitore attribuiscono ad azioni percepite come iperprotezione
Discernere se pratiche educative connotate da una forte ansia e preoccupazione risultano focalizzate sull’emotività o sul comportamento implica un’osservazione dettagliata e alcune valutazioni da parte sia dei genitori che dei figli. Le famiglie al cui interno si sono creati e mantenuti legami eccessivamente invischiati, non garantiscono ai figli l’opportunità di mettere in gioco le loro capacità personali, o ciò che Vygotsky (1978) chiama “zone di sviluppo prossimale”. Tale atteggiamento può provocare il rischio di un disagio psicologico a lungo termine. Barber (1996) nota che il controllo psicologico fa esplodere il legame genitore-figlio e appesantisce il bambino con sentimenti negativi come senso di colpa, vergogna e richiesta di minore controllo personale.

Il controllo comportamentale, che non ha un impatto negativo sul bambino se esercitato in modo ragionevole (come nel caso in cui si controlla il figlio all’uscita da scuola per assicurarsi che non si senta abbandonato), può causare conseguenze negative non volute se usato in modo sproporzionato. Un eccesso di controllo di solito si manifesta quando un bambino sperimenta una supervisione paterna (o materna) che si dimostra come forma di controllo molto più di quella esercitata dai genitori dei suoi compagni provenienti da un ambiente e un sistema culturale simili. Una seconda considerazione nella valutazione familiare è la necessità di prendere in esame nella sua interezza il contesto nel quale la protezione genitoriale viene messa in atto. La giusta dose di educazione protettiva dipende dal contesto. Per esempio, Luthar, Sawyer and Brown (2006) hanno mostrato che se la definizione di un limite evidenziava una correlazione positiva con le capacità personali nel caso di bambini provenienti da famiglie meno abbienti, era correlato negativamente con le capacità nel caso di giovani di ceto medio (per i quali uno stretto controllo in ambienti relativamente sicuri può significare rigidità). Il meccanismo che spiega la differenza può essere la diversità nel modo in cui i rischi che un bambino affronta vengono valutati.

L’evidenza suggerisce che quando i bambini sono testimoni di pericoli all’interno della loro comunità (spaccio di droga, prostituzione, violenza armata) uno stile educativo inflessibile viene vissuto dai figli come protettivo (Brodsky, 1996). Comunque, nel caso di un bimbo di una comunità sicura dove non si percepiscono pericoli, un genitore che esercita eccessivo controllo senza volerlo potrebbe minare il senso di capacità personale del figlio. Il messaggio nascosto è: “Tu non sei capace di badare a te stesso, perfino quando non c’è un pericolo immediato”. La posizione del controllo che ne risulta è esterna, con il bambino che attribuisce sicurezza alle azioni di altre persone piuttosto che alla sua personale capacità di risolvere i problemi. Il terzo punto della valutazione dovrebbe essere il significato attribuito alle azioni dei genitori e agli atti di condiscendenza da parte dei figli. Per esempio, è stato dimostrato che l’assunzione precoce del “ruolo genitoriale” da parte dei bambini è vantaggiosa per lo sviluppo infantile oppure neutra nei suoi effetti quando al bimbo viene riconosciuto il suo contributo al raggiungimento del benessere dei membri della famiglia (Hooper, Marotta & Lanthier, 2008; Jurkovic, Morrell & Casey, 2001), e il piccolo percepisce la sua assunzione del ruolo genitoriale come necessaria alla sopravvivenza della famiglia (come quando un genitore ha una malattia mentale, o la famiglia è emigrata da poco e al bambino è richiesto di badare agli altri figli piccoli mentre i genitori svolgono più lavori sottopagati) (Ungar, 2004; Yoshikawa & Kalil, 2010). Un simile ragionamento più essere fatto in merito alla costruzione della rappresentazione di sé dei bambini quando lo stile educativo è iperprotettivo.

Valutare cosa si intende per “troppo” sarà sempre frutto di una negoziazione tra il genitore e il figlio, inquadrata nelle costruzioni sociali dell’infanzia e nelle aspettative culturali di cosa i bambini possono o non possono fare (Mercogliano, 2007). Perciò, bisogna valutare clinicamente se un quadro educativo iperprotettivo è focalizzato sull’emotività o sul comportamento, il grado al quale il bambino è esposto al rischio (che necessita controlli più stretti) e il significato che assume tanto per il genitore quanto per il figlio un comportamento educativo basato strettamente sul controllo. A un ragazzino di 12 anni, Adrian, con il quale ho lavorato, era stata diagnostica artrite giovanile all’età di 3 anni e da allora era sempre stato protetto dalle conseguenze delle sue azioni. Spesso saltava la scuola, in parte a causa degli effetti collaterali della sua terapia, altre volte perché non si sentiva motivato. Sebbene fosse dotato intellettualmente e sua madre (anche lei affetta da artrite), suo padre e sua sorella minore si prendessero molta cura di lui, Adrian è cresciuto in un contesto nel quale aveva sempre una giustificazione per non prendersi la responsabilità delle sue azioni o per non essere esposto alle normali sfide dello sviluppo. Adrian non aveva responsabilità in casa ed era considerato vulnerabile da tutta la sua famiglia.

Alla fine le sue assenze ingiustificate da scuola significarono per lui la perdita dell’anno scolastico. Fu a questo punto che venne richiesta una terapia. La terapia prevedeva la richiesta ad Adrian di mettere in atto alcuni significativi lavori domestici di routine, come portare fuori il cane e aiutare a lavare i piatti della cena. Adrian venne anche obbligato a frequentare la scuola estiva e gli venne chiarito che avrebbe perso l’anno se non avesse frequentato almeno il 90 per cento di tutte le lezioni. Mettendo in campo delle aspettative chiare, e ponendo fine a un quadro educativo che proteggeva il ragazzo dalle conseguenze delle sue azioni, Adrian tornò a impegnarsi a scuola e cominciò a sentirsi meno “invalido”.

Una seconda ragazzina con la quale ho lavorato, Patricia, aveva 8 anni ed era incapace di scegliere i suoi amici, la sua dieta era severamente controllata (i suoi genitori non consumavano carne né latticini, volevano che i figli mangiassero solo cibi organici e zucchero non raffinato) e a lei veniva ripetuto di stare alla larga da attività rischiose come andare in bicicletta o accarezzare il cane di un vicino di casa. Per raggiungere questo livello di sicurezza, Patricia veniva costantemente osservata, i suoi genitori si preoccupavano della sua incolumità. Sebbene incoraggiata a praticare sport, Patricia non veniva mai lasciata da sola in alcuna attività pratica e non le veniva permesso di giocare con i suoi coetanei in un campo di gioco privo di strutture senza supervisione, e doveva sempre indossare indumenti totalmente sicuri. Alla fine Patricia cominciò a dire bugie e in almeno due occasioni non ritornò a casa da scuola in autobus. Questi comportamenti convinsero la famiglia alla terapia.

La soluzione all’evolversi di ciò che i genitori etichettarono come “disturbo di condotta” fu di offrire alla bambina delle opportunità di affrontare ragionevoli livelli di rischio. Patricia domandò ripetutamente di poter andare a casa di un’amica dopo la scuola. Alla fine il permesso venne accordato, sebbene la madre insistette nel dare alla figlia la merenda per il doposcuola e nel telefonare al genitore della bambina che Patricia sarebbe andata a trovare. L’altro genitore fu informato che Patricia poteva mangiare solo quello che aveva nella sua cartella. Questo piccolo cambiamento rispose al bisogno di Patricia di affrontare sfide maggiori e aprì la strada a future discussioni con la sua famiglia sui limiti più opportuni per crescere un figlio in ambienti sicuri.

La terapia per smontare una situazione di educazione iperprotettiva di solito può cominciare con una definizione realistica dei rischi che il bambino affronta e del bisogno emotivo dei genitori di sentirsi rassicurati. Frequentemente i genitori dei Paesi occidentali sopravvalutano i pericoli con cui i loro figli si confrontano. Come Glassner (1999) scrive in The Culture of fear (La cultura della paura), che delinea la scarsa capacità degli americani di valutare i rischi che corrono, i genitori spesso fraintendono un accaduto. Per esempio, citando articoli che demonizzano le madri in giovane età, le accusano di essere colpevoli del fallimento dell’economia americana e della bassa produttività, e le dipingono come un salasso per il welfare, Glassner dice: «Queste accuse sono assurde. Un agglomerato di giovani donne impoverite – il cui reddito globale (cioè la somma dei redditi di ciascuna) non ammonterebbe alla ricchezza di una sola delle 100 imprese della lista stilata da Fortune – non ha la capacità di distruggere l’America. Ciò che questi sapientoni hanno fatto è stato rivoltare l’ordine delle cause. Le gravidanze precoci sono state in gran parte la conseguenza del declino educativo ed economico di un Paese, e non il contrario. Le ragazzine che frequentano scuole degradate e si trovano davanti prospettive di lavoro degradanti sono molto poco stimolate a posticipare l’attività sessuale o a usare metodi contraccettivi» (p. 91).

In contesti familiari di ceto medio che funzionano ragionevolmente bene, il tasso di gravidanze adolescenziali è crollato drasticamente negli ultimi quarant’anni (Data Trends, 2007): ciò vuol dire che i genitori che si preoccupano dell’iniziazione sessuale precoce delle loro figlie potrebbero erroneamente attribuire la causa di una gravidanza precoce alla carenza di un severo coprifuoco. Di fatto, è più probabile che povertà e carenza di accessibilità al controllo delle nascite e all’educazione sulla salute sessuale mettano le giovani madri di fronte a dei rischi. Un sistema educativo più restrittivo di fatto potrebbe portare a una minore comunicazione con le adolescenti e aumentare, invece che diminuire, le probabilità di comportamenti che mettono in pericolo la salute sessuale di una figlia o di un figlio (Abma, 2003). Può sembrare strano, ma statisticamente i figli sono più esposti a rischi in ambienti e attività che i genitori potrebbero percepire come sicuri. Il 75 per cento degli adescamenti da parte di maniaci sessuali su Internet avvengono quando i ragazzini sono davanti al computer in casa loro. Il posto più probabile dove un bambino può subire abusi fisici o sessuali è casa sua. I bambini che mostrano segnali di un disturbo mentale e di depressione spesso sono quelli chiusi nelle loro stanze. Negli Stati Uniti la grande maggioranza dei ferimenti e delle fatalità legate ad armi da fuoco che coinvolgono ragazzi accadono in casa (Chesney-Lind & Belknap, 2004; Mitchell, Wolak & Finkelhor, 2007). L’inaccurata valutazione del rischio dal parte del genitore, e le conseguenze dannose del negare ai figli una ragionevole esposizione al rischio, fanno dell’educazione iperprotettiva uno spiacevole, quanto evitabile, problema per i bambini.

Per smontare situazioni di sistemi educativi iperprotettivi che sono incongruenti con i rischi posti a un bambino, una prima modalità di intervento è prendere in esame le statistiche nazionali su omicidi compiuti da adolescenti, rapimenti, tassi sull’uso di droga e attitudini dei ragazzi verso l’attività sessuale. Nella maggioranza dei contesti occidentali, queste statistiche mostrano un cambiamento positivo, con bambini e adolescenti meno a rischio adesso di quando i loro genitori e nonni erano giovani. Questi cambiamenti si possono in gran parte attribuire alle campagne di pubblica educazione riguardanti sicurezza dei bambini e abusi infantili. accesso a cure mediche di emergenza, politiche comunitarie e programmi di prevenzione della violenza. Forse, anche se si penserebbe il contrario, i bambini di oggi rappresentano il gruppo di età alla nascita più sicuro di sempre (Chesney-Lind & Belknap, 2004; Ungar, 2007) perfino in alcune popolazioni marginali che mostrano con evidenza un discreto sviluppo psicosociale quando vengono loro forniti sostegni alla sanità, all’istruzione e al benessere sociale.

Su un piano locale, i genitori possono essere incoraggiati a valutare l’ultima volta in cui il loro bambino ha subìto qualche danno nella sua comunità, in modo tale da assicurare che le loro percezioni riflettano accuratamente la realtà. Spesso, le paure si fondano su eventi che sono accaduti in altri luoghi o perfino in altri Paesi. Certamente non c’è nulla di sbagliato in un genitore che protegge i suoi figli e insiste perché indossino un casco o, quando sono più grandi, non ritornino a casa a piedi di notte.

Comunque, una volta che i figli sono protetti da ragionevoli pericoli, essi hanno bisogno di sviluppare lo stesso senso di competenza e di autonomia che accompagna l’esposizione a una certa dose di rischio e di responsabilità. Dal punto di vista dello sviluppo, affrontare alcune piccole crisi e sentirsi responsabili per sé stessi e gli altri (rischio e responsabilità sono strettamente legati nei racconti infantili di sviluppo positivo) (Lynch et al., 2002) offre ai bambini quattro potenti messaggi che sostengono uno sviluppo salutare:

  1. Tu esisti;
  2. Tu sei degno di fiducia;
  3. Tu sei responsabile;
  4. Tu sei competente
Nei due casi descritti in precedenza, questi messaggi erano o assenti o lasciati al bambino per intraprendere strade che potevano essere caratterizzate come disordinate e pericolose (le assenze da scuola avevano dato ad Adrian un senso di responsabilità personale; non ritornare a casa da scuola aveva dato a Patricia la sensazione di essere capace di prendere decisioni per sé stessa). Come terapista della famiglia, il mio scopo è quello di sostituire modi socialmente accettabili per i bambini per sperimentare attaccamento ai genitori e ai loro coetanei, fiducia, responsabilità e azione personale in modi socialmente accettabili che offrono loro una certa dose di esposizione al rischio. In questo modo, un’esposizione al rischio controllata bene e in tempo vaccina il bambino contro la futura esposizione ad agenti di stress che probabilmente finiranno col sopraffare la sua capacità di affrontarli se le sue competenze personali non si sviluppano presto. I bambini con poca esposizione al rischio o alla responsabilità potrebbero essere più inclini a prendere decisioni sbagliate o a sviluppare disturbi legati all’ansia (Stein, ed al., 2000).

Successivamente, nella mia terapia con i genitori pongo tre domande su loro stessi e i figli. Il mio scopo è aiutare i loro bambini ad acquisire i mezzi per affrontare i rischi che siano socialmente accettabili e appropriati per la crescita. Ai genitori viene prima di tutto chiesto di pensare a come essi stessi hanno raggiunto obiettivi di sviluppo e a come hanno gestito l’esposizione al rischio e alla responsabilità. Le loro storie personali sono importanti e forniscono un arco narrativo al lavoro. I genitori che hanno sperimentato carenza di controllo o abbandono sono incoraggiati a prendere in esame le fonti della loro capacità di gestione delle situazioni (“Come hai imparato ad affrontare il pericolo?”). Ai genitori che si sentivano a loro volta iperprotetti viene chiesto di raccontare dei momenti della loro vita in seguito, quando hanno cominciato ad affrontare rischi e assumere responsabilità, e qual è stato il motore che ha spronato quei cambiamenti.

La seconda domanda che viene posta ai genitori è se la loro esperienza di protezione o abbandono sia stata utile oppure no, e in quale misura la loro esperienza di figli li abbia aiutati a esaminare i quattro messaggi sopra menzionati. Durante questa fase, i genitori sono invitati ad analizzare in modo critico la loro esperienza, sfidando i giudizi poco adeguati. Il punto è identificare le modalità che hanno permesso di sviluppare la capacità di gestire i problemi e capire se i loro genitori hanno favorito oppure ostacolato il loro sviluppo psicologico.

La domanda finale non intende assume i toni di un’accusa. Ma gli viene chiesto in che modo il loro bambino apprenderà ciò di cui ha bisogno per sviluppare quelle capacità che gli saranno richieste in futuro per gestire i problemi. In che modo loro figlio troverà i mezzi socialmente accettabili per sentire di esistere, di essere degno di fiducia, responsabile e competente? Piuttosto che cercare di porre fine a un sistema educativo iperprotettivo, la terapia si focalizza sulla soluzione, invitando i genitori a offrire ai figli i vantaggi che derivano dal mettersi in gioco e dall’assumersi responsabilità. L’importante è assicurare che il prima possibile i bambini siano sufficientemente vaccinati contro le situazioni di stress e che abbiano le capacità di cui necessitano per gestire i problemi in modo tale da riuscire in seguito nella vita. In pratica, questo significa che ai genitori di Adrian era stato chiesto di assicurare che il ragazzo avesse l’opportunità di assumersi delle responsabilità per sé e di svolgere azioni che comportavano un normale grado di rischio come andare da solo a scuola. Nel caso di Patricia i genitori, che erano sempre stati insicuri e avevano compensato l’insicurezza con forme eccessive di controllo, finirono col capire il bisogno della figlia di cominciare a prendere delle decisioni da sola, incluse le scelte riguardo la sua salute fuori di casa.

In questo modo, la terapia si è concentrata sullo sviluppo della forza di carattere dei bambini attraverso l’esposizione a rischi ragionevoli piuttosto che puntare sullo scontro con i genitori per mettere fine a una situazione di eccessivo controllo. Rischio e responsabilità sono stati inquadrati come normali bisogni della crescita e la corretta educazione di un figlio è stata delineata come un insieme di azioni da parte dei genitori che aiutano il bambino a sviluppare le capacità di affrontare i problemi in modo autonomo da chi si prende cura di lui.

Nonostante la valutazione del rischio, effettivamente molti bambini vengono a trovarsi in una condizione non sempre ottimale, risultato degli eccessi di un’educazione iperprotettiva, rispetto a quello che essi vivono a causa dei rischi erroneamente valutati dai genitori. I bambini sottoposti a stretto controllo, ma che mantengono una certa autonomia nel prendere decisioni da soli, sembrano sperimentare un vantaggio nella crescita e nello sviluppo (Barber, 1996; Ungar, 2007). In questo senso, la terapia per modificare un sistema educativo iperprotettivo può avere benefìci a lungo termine sui bambini.

 
 
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