Federico Noseda.
In una vita ad alta quota, ha visto i cieli di tutto il mondo, nell’impeccabile divisa scura, con la stella e le quattro bande dorate sulle maniche. Tra i suoi passeggeri può annoverare ben due santi: papa Giovanni Paolo II e Madre Teresa di Calcutta. Il comandante Federico Noseda (comasco, 77 anni), che di Alitalia è stato anche istruttore e poi direttore di una scuola di volo, è una di quelle persone che la storia della compagnia di bandiera possono raccontarla dall’interno, attraverso il proprio vissuto. Una storia che oggi, a posteriori, un istante prima di voltare pagina (il 15 ottobre debutta la nuova compagnia, Ita) ci appare come un intreccio inestricabile di glorie e tracolli. Ma andiamo per ordine. «Era il 1964 quando iniziai il mio percorso formativo» ricorda il comandante (oggi in pensione), già figlio di un pilota e quasi predestinato al volo. «Frequentai la scuola di Fiumicino (Roma) per la parte teorica e quella di Brindisi per le esercitazioni pratiche». Fu l’esordio di una carriera in crescendo: «Ho cominciato come terzo pilota sui Caravelle, dei bireattori di fabbricazione francese, allora in servizio in Europa e Medio Oriente».
Nel ’69 Noseda passa, come co-pilota, agli americani DC-9 «appena arrivati, un’assoluta avanguardia per l’epoca». Nel ’72, dopo una dura batteria di esami e test, diventa comandante. Alcuni anni più tardi prodare ai Boeing B747, «una di quelle condizioni che ti fanno sentire professionalmente “arrivato”». In circa 16 mila ore di volo ha collezionato ricordi difficili da dimenticare: «Le aurore boreali, l’incanto del cielo notturno, sia nell’emisfero Nord (con davanti agli occhi la stella polare e Cassiopea) sia in quello australe, forse ancora più stupefacente; l’emozione di planare, di prima mattina, su Rio de Janeiro o su Sydney. E ancora, la sterminata Russia, con i suoi tanti fusi orari, quando la attraversavo volando dall’Italia al Giappone. E come dimenticare il deserto del Gobi?». Memorie vivide, quasi come quelle di certi incontri. Uno su tutti: Giovanni Paolo II. «Nel ’90 ebbi l’onore di venir scelto come pilota per uno dei viaggi apostolici. Dopo la partenza, ci fermammo prima a Malta, per un paio d’ore, poi facemmo rotta su Dar es Salam (Tanzania). Il Papa venne a trovarci in cabina e fu un momento indimenticabile. Seppi anche che gli sarebbe piaciuto sorvolare il Kilimangiaro, per poterlo vedere bene: mi avvicinai il più possibile». E Madre Teresa, incontrata in un altro volo? «Una calamita. Più cercava di rendersi invisibile, più catalizzava l’attenzione. In quell’occasione raccogliemmo molti fondi per i suoi progetti». Negli anni, Noseda è stato anche coordinatore dell’addestramento e, dal 2000 al 2004, direttore della scuola di volo di Alghero.
Gli chiediamo se sia vero che i piloti Alitalia fossero i migliori al mondo. Lui sorride e si schernisce: «Lo si legge sui giornali, non so se sia vero. In realtà, quanto alla formazione, c’è una sostanziale uniformità a livello europeo. Posso però dire che l’addestramento è molto cambiato nel tempo. Negli anni ’60 si dava grande importanza alla capacità manuale di gestire il velivolo». Si raccoglieva l’eredità di anni pionieristici, «quando gli aerei di linea non avevano il radar, le perturbazioni si evitavano a vista e, se questo non era possibile, bisognava fare i conti con grandine e fulmini. Nel tempo, potendo contare su tante esperienze e su nuove strumentazioni, si è accentuato l’addestramento su capacità decisionale e integrazione dell’equipaggio, elementi ritenuti sempre più importanti per la sicurezza delle operazioni di volo». E la stessa Alitalia è cambiata, assieme ad aerei e piloti. «A inizio carriera ho trovato una realtà ancora relativamente piccola. Ricordo gli anni in cui, se volavamo a Natale o Capodanno, l’ingegner Bruno Velani (considerato il “padre” della compagnia, ndr) veniva personalmente a portarci il panettone. Poi siamo diventati una grande azienda, con grandi numeri». A proposito, molto si è scritto sui privilegi dei dipendenti Alitalia: stipendi d’oro, benefit da sogno. Era così? E quanto può aver inciso sul tracollo della compagnia? «Mi risulta che gli stipendi fossero allineati, se non inferiori, agli standard internazionali. Penso che, invece, abbiano pesato errori di altra natura. E la frequente intromissione della politica non ha giovato. Per esempio, avevamo una flotta molto eterogenea, il che rendeva impossibile ragionare su un’economia di scala. Pensiamo solo ai tanti pezzi di ricambio diversi e al fatto che per ogni modello di velivolo serviva un addestramento specifico. Già solo questo comportava spese folli. Ma c’erano anche rotte poco produttive ed equipaggi fermi per giorni».