Sono morti a pochi giorni di distanza. Lei anonima, lui celeberrimo. Ljubov Alekseevna Netupskaja era una giovane radiotelegrafista quando, nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1945, nel comando del maresciallo Zhukov a Berlino, fu incaricata di chiamare il Cremlino e dare a Stalin la notizia che la Germania nazista si era arresa senza condizioni. Lui, John Le Carré (il nome all’anagrafe, David John Moore Cornwell, era un pallido tentativo della vita di imitare l’arte) è colui che ha raccontato tutto il resto, tutto ciò che è venuto dopo quella comunicazione.
Solo chi non ama per principio la letteratura di genere potrà non accorgersi che con la morte di Le Carré si chiude davvero il Novecento. Il secolo che, a dispetto del grande Eric Hobsbawm, non è stato breve ma lunghissimo. Interminabile. E lo scrittore è durato altrettanto, quasi sempre al vertice della creatività e dell’intelligenza dal 1961 (“Chiamata per il morto”, il primo romanzo) al 2019 “La spia corre sul campo”, l’ultimo), attraverso ventisette romanzi, un’autobiografia e tante altre cose sparse.
In tutto questo, i pochi anni trascorsi nel servizio diplomatico inglese e poi nei servizi segreti di Sua Maestà, tra le fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, servono soprattutto per gli articoli di commiato e per il folklore. Le Carré, essendo Le Carré, avrebbe potuto benissimo farne a meno. Il suo talento è stato di cogliere con occhio implacabile e dolente l’essenza del secolo lungo novecentesco, ovvero la crudeltà mischiata a una somma mediocrità. Come avrebbe detto Hanna Arendt, la banalità del male. Non è un caso se nella prima frase di “Chiamata per il morto” l’eroe George Smiley viene definito “un tipo di una mediocrità da togliere il fiato”, mentre l’ultima frase dell’ultimo romanzo, “La spia corre sul campo”, appunto recita: “Avrei voluto dirgli che ero una brava persona, ma era troppo tardi”.
Perché di George Smiley, la spia grassoccia, perennemente tradita dalla moglie, disprezzata dai colleghi, umiliata dai superiori, possiamo parlare come di un eroe? Non diceva Guccini che gli eroi “son tutti giovani e belli”? Nell’Ottocento, forse. Ma non nel Novecento, il secolo degli ideali traditi, della menzogna, del tradimento, dei Lager, dei Gulag e della bomba atomica, del crollo dell’Urss e del Muro, delle spie che si possono vendere e comprare, delle belle facciate sulle brutte cose. Di tutto questo Le Carré, attraverso lo sciatto, impacciato e in apparenza disarmato Smiley, ha creato un’epica unica e inimitabile. Un’epica al contrario. Non quella delle bandiere che garriscono al vento e delle figure da prendere ad esempio, bensì quella del non visto e non detto. Non quella delle uniformi e delle medaglie, ma quella degli orribili impermeabili con le spalline, delle inutili pipe e dei cappelli flosci. La Storia raccontata dai sottoscala che la producono, non dai palchi che la raccontano.
Come ogni eroe che si rispetti, anche Smiley aveva bisogno di un’antagonista. Eccolo: l’Urss, il moloch acquattato al di là del Muro (a sua volta non una barriera ma una categoria dello spirito, si è di qua o di là comunque, come dimostrano i romanzi europei, latinoamericani o africani che Le Carré scrisse a Germania riunificata), il lato oscuro della forza. Un mostro personificato in Karla, lo Smiley della steppa, anche lui alla fine un uomo qualunque, quello che nel gruppo non spicca o, meglio, non si fa notare. Se Smiley è spinto da un ineluttabile senso della dignità personale, assai più che da qualunque retorica sulla difesa del mondo libero, Karla sembra motivato dall’ideologia e dalla fedeltà ai soviet. Sembra, nei primi libri, ma poi vai a sapere. A un certo punto anche Karla si trasforma, diventa pian piano più russo e meno sovietico. Il che non vuol dire che non faccia ciò che deve. Ma chissà perché, o per chi.
Il personaggio di Karla, in Le Carré, era ispirato a un uomo realmente esistito, Markus Wolf detto Misha, mitico capo dei servizi di spionaggio della Germania Est. Aveva ottenuto risultati incredibili, per esempio piazzare uno dei suoi nel ruolo di consigliere di Willy Brandt, cancelliere della Germania Ovest. Lo chiamavano “l’uomo senza volto” perché in trent’anni di servizio non si era mai lasciato fotografare. Si vide che faccia aveva solo nel 1986, quando abbandonò il servizio per schierarsi al fianco dei “liberalizzatori” che criticavano il regime.
Capii tutta la grandezza di Le Carré quando ebbi l’occasione di incontrare e intervistare due volte Misha-Karla. Viveva nel centro di Berlino, nel quartiere Mitte, a due passi dall’Isola dei Musei. Bella zona, borghese, ma niente lussi. Un condominio anonimo, un appartamento discreto. Lui era cortese ma distaccato, come se si fosse congedato per sempre dalla vecchia vita di intrighi e macchinazioni, documenti trafugati, vite rovinate o cancellate. Forse anche lui, come l’ultima spia di Le Carré, avrebbe voluto dire a Qualcuno che in fondo era una brava persona. Ma era troppo tardi. Come lo scrittore ci ha raccontato, presa una certa strada diventa sempre troppo tardi.