La "cella" di un carcere libico. La foto è stata inviata da uno dei profughi reclusi col telefono cellulare a don Mussie Zerai (nella foto di copertina).
A fine ottobre 2013,
il premier libico Ali
Zeidan ha annunciato che i confini con Algeria, Tunisia, Egitto e
Sudan saranno controllati in collaborazione con governo e tecnici
italiani. Per il monitoraggio elettronico aereo, saranno utilizzati
radar e sensori della Selex, società di Finmeccanica. Un contratto
firmato con Ghedaffi, ma poi bloccato dalla guerra civile.
«Con la nuova Libia, per i migranti
dell’Africa subsahariana non è cambiato nulla rispetto ai tempi
dell’ex dittatore. L’Europa continua a chiedere ai Paesi
dell’altra sponda del Mediterraneo di chiudere la porta, senza
preoccuparsi di cosa accade fuori».
È netto il parere di don Mussie
Zerai, un sacerdote
cattolico eritreo che vive tra Roma e la Svizzera e che con la sua
associazione Habeshia si occupa di dar voce a chi scappa dal Corno
d’Africa. È in contatto con molti dei migranti detenuti nelle
carceri libiche, grazie a cellulari che sono riusciti a
nascondere.
Il
suo numero di telefono è anche la salvezza di molti che salgono
sulle “carrette del Mediterraneo”: quando le barche sono in
avaria o stanno per affondare, spesso chiamano il sacerdote per
chiedere il soccorso della Marina.
– Qual è la situazione dei
profughi subsahariani nelle carceri della “nuova” Libia?
«Sono detenuti
in condizioni disumane, senza cibo e vestiti, in locali sovraffollati
e pericolosi dal punto di vista igienico-sanitario. Ogni occasione è
buona per vessare i profughi. In
questi giorni, mi hanno chiamato dal carcere di Garabuli, dove ogni
sera è l’inferno: a turno, due donne sono abusate sessualmente dai
soldati di guardia, sotto gli occhi dei loro figli, oltre trenta
bambini anche loro dietro le sbarre. Nel bunker di Sebha, 1.200
persone sono rinchiuse sotto terra, senza coperte: soffrono la forte
escursione termica tra il caldissimo giorno e la notte gelata. Il
carcere di Hums è pieno di proiettili ai muri: alla sera, i soldati
ubriachi sparano all’impazzata e ogni tanto uccidono qualche
migrante. Vicino a Bengasi, invece, i militari giocano al tiro a
segno con detenuti obbligati a tenere una bottiglia sulla testa che
diventa il bersaglio per i loro proiettili. Si può uscire da questi
posti soltanto quando i parenti dall’estero mandano tra i 500 e i
1.000 dollari per corrompere i soldati».
Le condizioni di detenzione nelle carceri libiche sono disumane e i reclusi sottoposti a ogni genere di abuso.
"L’Europa e l’Italia fanno accordi bilaterali, addestrano i soldati libici e fanno anche affari sulla pelle dei poveri"
– Quali sono i numeri?
«Abbiamo censito
22 prigioni unicamente per i migranti, ma crediamo che ce ne siano
anche altre. In più, alcuni profughi sono rinchiusi nelle carceri
insieme ai delinquenti comuni. Si tratta di almeno 10 mila tra
eritrei, somali, sudanesi e neri dell’Africa occidentale. Talvolta,
sono richiedenti
asilo politico e rifugiati, già riconosciuti dall’Unhcr nei campi
profughi del Sudan, ma la Libia – sì, anche la “nuova” Libia –
non ha firmato la Convenzione di Ginevra sul diritto d’asilo.
La
situazione peggiore è quella dei cristiani: costretti a recitare le
preghiere islamiche e particolarmente presi di mira».
– La minaccia dei rimpatri è
utilizzata?
«Sì, specialmente per gli eritrei,
è successo con tre ragazzi settimana scorsa. L’Eritrea è da 22
anni una dittatura chiusa, che non ha mai svolto elezioni, non ha una
Costituzione e nega le libertà fondamentali. Ogni mese 4 mila
persone lasciano il Paese, soprattutto i giovani, per evitare il
servizio militare che è una schiavitù legalizzata: è illimitato, a
vita. Per questo, i libici minacciano il rimpatrio: chi non ha svolto
il servizio militare, in patria rischia anni di carcere duro, mentre
chi era arruolato e ha disertato, va incontro alla pena di morte».
– Come si comporta la polizia
libica nei confronti dei barconi che partono verso l’Italia?
«Ci hanno
segnalato casi in cui la polizia libica ha sparato contro le barche.
In particolare, secondo le testimonianze dei profughi del
peschereccio affondato
l’11 ottobre, una motovedetta libica ha sparato raffiche di mitra
forando le fiancate di legno. Da quel momento, la barca ha cominciato
ad imbarcare acqua e, quando la marina maltese e italiana sono
intervenute, hanno potuto salvare solo 212 migranti (quasi tutti
siriani). Per altri 268 era troppo tardi».
– La
situazione è cambiata rispetto alla Libia di Ghedaffi?
«Per gli
africani subsahariani, assolutamente no. La pelle nera in Libia
continua a pagare pegno, continuano le retate e gli arresti; in
alcuni casi, le discriminazioni verso i neri sono addirittura
aumentate perché ingiustamente accusati di aver sostenuto l’ex
dittatore. Ma la situazione non cambia perché l’Europa continua a
chiedere ai libici di trattenere i potenziali “clandestini”,
senza dire nulla su come li trattengono. L’Europa e l’Italia
fanno accordi bilaterali, addestrano i soldati libici e fanno anche
affari sulla pelle dei poveri, come dimostra l’utimo accordo per il
controllo delle frontiere con i radar e i sensori della controllata
di Finmeccanica. Tra l’altro, non dimentichiamoci che, per
sbarazzarsi dei profughi, spesso i soldati libici li abbandonano a
Sud, in pieno deserto. Qualche
giorno fa, ci hanno segnalato 80 cadaveri morti di sete e fame al
confine tra Libia e Niger».