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martedì 17 settembre 2024
 
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«Con la “nuova” Libia nulla è cambiato»

08/01/2014  «La pelle nera nel Paese nordafricano continua a pagare pegno», dice don Mussie Zerai. «Per gli africani subsahariani non è cambiato assolutamente nulla, continuano le retate e gli arresti. In alcuni casi, le discriminazioni verso i neri sono addirittura aumentate». Il prete cattolico eritreo è diventato il punto di riferimento dei migranti detenuti, vessati e torturati.

La "cella" di un carcere libico. La foto è stata inviata da uno dei profughi reclusi col telefono cellulare a don Mussie Zerai (nella foto di copertina).
La "cella" di un carcere libico. La foto è stata inviata da uno dei profughi reclusi col telefono cellulare a don Mussie Zerai (nella foto di copertina).

A fine ottobre 2013, il premier libico Ali Zeidan ha annunciato che i confini con Algeria, Tunisia, Egitto e Sudan saranno controllati in collaborazione con governo e tecnici italiani. Per il monitoraggio elettronico aereo, saranno utilizzati radar e sensori della Selex, società di Finmeccanica. Un contratto firmato con Ghedaffi, ma poi bloccato dalla guerra civile.

«Con la nuova Libia, per i migranti dell’Africa subsahariana non è cambiato nulla rispetto ai tempi dell’ex dittatore. L’Europa continua a chiedere ai Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo di chiudere la porta, senza preoccuparsi di cosa accade fuori».

È netto il parere di don Mussie Zerai, un sacerdote cattolico eritreo che vive tra Roma e la Svizzera e che con la sua associazione Habeshia si occupa di dar voce a chi scappa dal Corno d’Africa. È in contatto con molti dei migranti detenuti nelle carceri libiche, grazie a cellulari che sono riusciti a nascondere.

Il suo numero di telefono è anche la salvezza di molti che salgono sulle “carrette del Mediterraneo”: quando le barche sono in avaria o stanno per affondare, spesso chiamano il sacerdote per chiedere il soccorso della Marina.

– Qual è la situazione dei profughi subsahariani nelle carceri della “nuova” Libia?

«Sono detenuti in condizioni disumane, senza cibo e vestiti, in locali sovraffollati e pericolosi dal punto di vista igienico-sanitario. Ogni occasione è buona per vessare i profughi. In questi giorni, mi hanno chiamato dal carcere di Garabuli, dove ogni sera è l’inferno: a turno, due donne sono abusate sessualmente dai soldati di guardia, sotto gli occhi dei loro figli, oltre trenta bambini anche loro dietro le sbarre. Nel bunker di Sebha, 1.200 persone sono rinchiuse sotto terra, senza coperte: soffrono la forte escursione termica tra il caldissimo giorno e la notte gelata. Il carcere di Hums è pieno di proiettili ai muri: alla sera, i soldati ubriachi sparano all’impazzata e ogni tanto uccidono qualche migrante. Vicino a Bengasi, invece, i militari giocano al tiro a segno con detenuti obbligati a tenere una bottiglia sulla testa che diventa il bersaglio per i loro proiettili. Si può uscire da questi posti soltanto quando i parenti dall’estero mandano tra i 500 e i 1.000 dollari per corrompere i soldati».

Le condizioni di detenzione nelle carceri libiche sono disumane e i reclusi sottoposti a ogni genere di abuso.
Le condizioni di detenzione nelle carceri libiche sono disumane e i reclusi sottoposti a ogni genere di abuso.

"L’Europa e l’Italia fanno accordi bilaterali, addestrano i soldati libici e fanno anche affari sulla pelle dei poveri"

– Quali sono i numeri?

«Abbiamo censito 22 prigioni unicamente per i migranti, ma crediamo che ce ne siano anche altre. In più, alcuni profughi sono rinchiusi nelle carceri insieme ai delinquenti comuni. Si tratta di almeno 10 mila tra eritrei, somali, sudanesi e neri dell’Africa occidentale. Talvolta, sono richiedenti asilo politico e rifugiati, già riconosciuti dall’Unhcr nei campi profughi del Sudan, ma la Libia – sì, anche la “nuova” Libia – non ha firmato la Convenzione di Ginevra sul diritto d’asilo. La situazione peggiore è quella dei cristiani: costretti a recitare le preghiere islamiche e particolarmente presi di mira».

– La minaccia dei rimpatri è utilizzata?

«Sì, specialmente per gli eritrei, è successo con tre ragazzi settimana scorsa. L’Eritrea è da 22 anni una dittatura chiusa, che non ha mai svolto elezioni, non ha una Costituzione e nega le libertà fondamentali. Ogni mese 4 mila persone lasciano il Paese, soprattutto i giovani, per evitare il servizio militare che è una schiavitù legalizzata: è illimitato, a vita. Per questo, i libici minacciano il rimpatrio: chi non ha svolto il servizio militare, in patria rischia anni di carcere duro, mentre chi era arruolato e ha disertato, va incontro alla pena di morte».

– Come si comporta la polizia libica nei confronti dei barconi che partono verso l’Italia?

«Ci hanno segnalato casi in cui la polizia libica ha sparato contro le barche. In particolare, secondo le testimonianze dei profughi del peschereccio affondato l’11 ottobre, una motovedetta libica ha sparato raffiche di mitra forando le fiancate di legno. Da quel momento, la barca ha cominciato ad imbarcare acqua e, quando la marina maltese e italiana sono intervenute, hanno potuto salvare solo 212 migranti (quasi tutti siriani). Per altri 268 era troppo tardi».

– La situazione è cambiata rispetto alla Libia di Ghedaffi?

«Per gli africani subsahariani, assolutamente no. La pelle nera in Libia continua a pagare pegno, continuano le retate e gli arresti; in alcuni casi, le discriminazioni verso i neri sono addirittura aumentate perché ingiustamente accusati di aver sostenuto l’ex dittatore. Ma la situazione non cambia perché l’Europa continua a chiedere ai libici di trattenere i potenziali “clandestini”, senza dire nulla su come li trattengono. L’Europa e l’Italia fanno accordi bilaterali, addestrano i soldati libici e fanno anche affari sulla pelle dei poveri, come dimostra l’utimo accordo per il controllo delle frontiere con i radar e i sensori della controllata di Finmeccanica. Tra l’altro, non dimentichiamoci che, per sbarazzarsi dei profughi, spesso i soldati libici li abbandonano a Sud, in pieno deserto. Qualche giorno fa, ci hanno segnalato 80 cadaveri morti di sete e fame al confine tra Libia e Niger».

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