Èstato pubblicato nel dicembre 2011 un interessante
report di ricerca sul tema della conciliazione
famiglia-lavoro, ricerca svolta nell’ambito delle
attività dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia, a
cura di Sara Mazzucchelli e sotto la direzione scientifica
di Giovanna Rossi, ordinario di Sociologia della famiglia
presso l’Università Cattolica di Milano.
Conciliazione famiglia e lavoro. Buone pratiche di
welfare aziendale, questo il titolo del report che si caratterizza
per una chiara scelta di campo: l’attenzione è
qui totalmente rivolta a ciò che le aziende fanno, o potrebbero
e dovrebbero fare, per rendere più facilmente
conciliabile vita lavorativa e vita familiare. Le aziende
non sono certo i soli attori in campo quando si parla di
conciliazione: e tuttavia, qualsiasi politica di bilanciamento
famiglia-lavoro che non coinvolga il mondo
aziendale risulta inevitabilmente fallace. Inoltre l’équipe
di ricerca propone il modello della Corporate Citizenship,
ovvero dell’inclusione dell’impresa tra gli attori
del welfare locale «non soltanto in veste di erogatore di
servizi, ma anche e soprattutto nei termini di una sua
compartecipazione, in chiave sussidiaria, alla definizione
degli obiettivi, della struttura e degli standard del welfare
stesso». Un’azienda, quindi, che nell’ambito della
propria responsabilità sociale d’impresa riconosce sia
la famiglia sia il territorio come stakeholder privilegiati.
Lorenza Rebuzzini
In questa prospettiva sono state selezionate e analizzate,
tramite un questionario, le buone pratiche presentate
nel volume, raccolte in quattro Regioni italiane
(Lombardia, Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Marche),
secondo un criterio che non risulta però essere
in alcun modo rappresentativo delle aziende italiane:
in totale sono state mappate 123 aziende, tra le quali il
72,7% è di media grandezza, per lo più con dipendenti
di età compresa tra i 35 e i 44 anni (82%). In linea con
le statistiche a livello nazionale, le donne sono maggiormente
impiegate nelle aziende di piccole dimensioni e
con contratti precari, gli over cinquanta con contratti
precari e i giovani con
contratti atipici. Questo
aspetto, peraltro, come
emerge poi dalla ricerca,
non è irrilevante ai fini
della possibilità di usufruire
di misure di conciliazione:
i dipendenti con contratti
atipici e precari, infatti,
sono quelli che meno
degli altri possono usufruire
delle misure di conciliazione
e di welfare attuate
dall’azienda.
Il criterio di valutazione
delle buone prassi
aziendali (o promising practices,
pratiche che “promettono
bene”) è stato costruito
in accordo con il
modello relazionale di
analisi delle buone pratiche
elaborato da Donati,
Prandini, Rossi e Boccacin
e così sintetizzato:
«Un insieme di azioni/interventi
finalizzati a rispondere
a un bisogno
complesso, rilevante socialmente,
tesi alla realizzazione
di un benessere
relazionale, e alla generazione
di Capitale sociale
(Cs), in grado di capacitare
le relazioni familiari in
una prospettiva di empowerment
promosse, preferibilmente,
da una realtà di
soggetti in partnership, in
grado di includere, a livello
progettuale, realizzativo
e valutativo, tutti i soggetti,
erogatori e fruitori».
Questa definizione di
promising practices ha il vantaggio
di conservare e valorizzare
l’approccio relazionale,
del tutto assente
nella visione del problema
conciliazione a livello
europeo, dove è prevalsa
una linea marcatamente
individualistica e del tutto
funzionale (la conciliazione
come politica che persegue
obiettivi di aumento
dell’occupazione femminile
e la promozione
delle pari opportunità).
Al contrario, come dimostrato
in molteplici studi e
come emerge anche nella
ricerca in esame, le scelte
lavorative sono compiute
sempre all’interno di un
quadro relazionale estremamente
complesso
(non la donna considerata
in modo solipsistico per
sé, ma la donna all’interno
della relazione di coppia
e di un sistema familiare
e sociale ben definito).
Lorenza Rebuzzini
A partire da queste premesse,
ecco i criteri di valutazione
delle buone
prassi aziendali elaborati
dall’équipe di ricerca:
- Aver effettuato
un’analisi della domanda,
aver cioè dato spazio di
ascolto all’emergere di bisogni
di conciliazione; le
aziende affermano, in genere,
di aver implementato
politiche di welfare
aziendale e di conciliazione
famiglia-lavoro in seguito
all’emergere di un
bisogno. Se, da una parte,
questo fa onore alla capacità
di ascolto e di riorganizzazione
messo in atto
dalle aziende, d’altro canto
lascia scoperta una criticità
profonda, ossia la possibilità
che le pratiche di
conciliazione entrino in
modo strutturato nella
cultura aziendale e
nell’organizzazione del lavoro,
a prescindere
dall’emergere o meno di
un bisogno (e spesso i bisogni
rimangono latenti).
- Presenza di una progettualità
ad hoc, cioè la
strutturazione di un progetto
che risponda al bisogno
emerso; anche in questo
caso, oltre alla criticità
sopra individuata emerge
il problema della messa in
moto delle risorse, sia
all’interno sia all’esterno
dell’azienda.
- Monitoraggio in itinere,
il progetto di conciliazione
deve essere monitorato
nel suo sviluppo
per essere eventualmente
modificato in alcuni aspetti
e raggiungere gli obiettivi
desiderati.
- Valutazione ex post
sia dell’efficacia (adeguatezza
dell’intervento e
soddisfazione dei dipendenti)
sia dell’efficienza
(rapporto tra risorse impiegate
e risultati raggiunti)
del progetto implementato.
Tale aspetto risulta
molto importante e,
al tempo stesso, ancora
ampiamente sottovalutato
nell’implementazione
di buone pratiche di conciliazione
aziendale.
- Familiarizzazione,
ovvero coinvolgimento ed
empowerment della rete familiare.
- Rilevanza, il progetto
interviene su un’ampia
fascia di dipendenti e/o è
fruibile da tutti loro.
- Presenza di partnership
con enti esterni, in
particolare apertura al territorio
circostante e alle
realtà del Terzo Settore.
- Capitale Sociale, l’intervento
“sviluppa e consolida
il capitale sociale delle
famiglie e del contesto
territoriale in cui si situa”.
Oltre a un’ampia disamina
di otto buone prassi
aziendali, in realtà molto
differenti tra loro per territorio
e dimensioni (vengono
studiate in dettaglio le
promising practices di Bpm,
B&M Service Centre srl,
Bracco spa, Ferrero spa,
Martini&Rossi spa, Elica
spa, S.A.L.P. spa, Euromotori),
sono stati stilati alcuni
indici sintetici particolarmente
interessanti, che
prendono in considerazione
gli ambiti aziendali
coinvolti nella costruzione
di processi di conciliazione
famiglia-lavoro.
Lorenza Rebuzzini
L’organizzazione del lavoro
è tema cruciale e investe
non solo la flessibilità
oraria, ma anche l’utilizzo
dei congedi e del telelavoro,
definiti sia nella
contrattazione di secondo
livello sia in modo più informale
nell’ambito della
vita aziendale. In particolare,
un primo indice sintetico
riguarda la flessibilità
oraria delle aziende considerate,
che si attestano su
un livello medio-alto (medio
40%, alto 32,8%).
La conciliazione risulta
un principio formalizzato,
a livello di valori aziendali,
nel 54% delle aziende
in esame. Tuttavia, la comunicazione
delle buone
pratiche di conciliazione,
sia all’interno sia all’esterno,
non è strutturata ed è
lasciata per lo più alla relazione
interpersonale o alle
affissioni negli spazi comuni
(comunicazione interne)
e alla partecipazione
ai convegni e nel bilancio
sociale. Inoltre, la conciliazione
è inserita nei
programmi di formazione
dedicati a dirigenti e manager
in modo regolare
solo nel 6% dei casi. L’indice
sintetico di comunicazione
si attesta dunque su
livelli medio-bassi (medio
41,5% e basso 36,5%).
I servizi implementati
dall’azienda sono sostanzialmente
servizi di supporto
e di time-saving (bancomat,
lavanderia, spesa
on line, disbrigo di pratiche
burocratiche) o convenzioni
mediche, misure
cioè connesse con la salute
e il benessere psico-fisico
del dipendente, concesse
ai lavoratori a tempo
indeterminato e usufruite
in maniera differente
secondo l’inquadramento
del singolo dipendente.
L’indice sintetico
di attenzione al dipendente,
tuttavia, si attesta su livelli
medio-bassi (medio
51%, basso 36%).
Lorenza Rebuzzini
Sebbene rientri tra i valori
della cultura aziendale,
la conciliazione famiglia-lavoro non risulta essere
un aspetto supportato
da un programma formalizzato
e promosso in
modo esplicito. Tuttavia,
le aziende in esame appaiono
estremamente attente
nel coinvolgimento
dei dipendenti nella strutturazione
di misure di
conciliazione, in modo da
poter dare vita a progetti
efficaci: l’indice sintetico
di coinvolgimento dei dipendenti,
infatti, si assesta
su valori medio-alti
(medio 40,7%, alto 37%).
La valutazione si presenta
ancora come una fase
estremamente critica
dell’implementazione di
politiche di conciliazione,
ottenendo un indice sintetico
di valutazione decisamente
basso (circa il 68%
delle aziende non attua
processi di valutazione
delle buone pratiche in atto)
indicando un aspetto
di problematicità e di perfettibilità
al quale le aziende
dovrebbero offrire particolare
attenzione. Infatti,
è in base a questo indice
che diventa poi possibile
l’affermarsi delle buone
prassi di conciliazione
famiglia-lavoro come investimento,
piuttosto che come
costo, e come leva di
vantaggio competitivo,
piuttosto che come “concessione”
in un’ottica paternalistica
o individualistica.
Emerge qui, nuovamente,
come la conciliazione
famiglia-lavoro, oltre
che essere un’efficace
“sponda” per favorire un
cambiamento della cultura
e dell’organizzazione
aziendale, possa rivelarsi
come la “chiave di volta”
per aumentare il benessere,
e, quindi, la produttività
e l’attrattività delle stesse
aziende. In questo senso
un’attenta analisi delle
risorse presenti in azienda
e la capacità di aprirsi
ad attività di consulenza e
di partnership qualificate
appare come un’opzione
interessante che le aziende
italiane devono ancora
intraprendere.
(Il report di ricerca è disponibile,
e integralmente
scaricabile, nella pagina
delle pubblicazioni
dell’Osservatorio per la famiglia:
http://www.politichefamiglia.
it/documentazione/
pubblicazioni-osservatorio-
famiglia.aspx).
Lorenza Rebuzzini