Bangkok, Thailandia
Gli antichi
naviganti usavano il sorgere del sole per orientarsi nei mari
sconosciuti. È nato così il significato della parola “orientamento
“: guardare a Oriente per non perdersi e non disperarsi.
Funzionerebbe ancora oggi nel mare mosso delle economie e delle
società globalizzate?
Certo l’Asia gioca oggi quel ruolo di
continente chiave per il futuro dell’umanità che in passato hanno
giocato l’Europa e l’America. Su un miliardo e 200 milioni di
cattolici al mondo, 504 milioni sono asiatici, cioè il 42% e dunque
il gruppo più grande tra tutti i continenti. In Asia convivono tutte
le grandi religioni e l’Indonesia è il più grande paese islamico
al mondo.
Con i suoi 44.5 milioni di chilometri quadrati, cioè 30%
delle terre del pianeta e 4.3 miliardi di persone, cioè il 60% della
popolazione mondiale, il ruolo dell’Asia come continente campione
del mondo è evidente ed imbattibile. Ma due terzi dei poveri del
mondo vivono in Asia: circa 1,7 miliardi di asiatici vivono con meno
di 2 dollari al giorno e soffrono discriminazioni contro le numerose
minoranze etniche e la disuguaglianza delle donne.
Può l’Asia
moderna essere un faro per i naviganti perduti a caccia di idee
credibili per una crescita economica giusta e sostenibile? Secondo
una ricerca della banca Citigroup, 9 di 11 Paesi nel mondo generatori
di crescita sono in Asia. Trainati da una forte crescita della
popolazione e del reddito, Bangladesh, Cina, India, Indonesia, Iraq,
Mongolia, Filippine, Sri Lanka e Vietnam sostengono le produzioni e i
consumi del mondo intero. Quattro principali centri finanziari,
Tokyo, Hong Kong, Singapore e Shanghai di fatto orientano gli indici
globali di Borsa.
Quasi non esiste al mondo alcun prodotto che non
usi un centro asiatico di produzione in outsourcing
o un call
center per i clienti. Centinaia di
milioni di lavoratori qualificati asiatici con un’ottima conoscenza
della lingua inglese competono con successo nel mercato globale del
lavoro.
Con 3,5 milioni di
milionari in dollari, l’Asia ha superato il Nord America che ne ha
3,4 milioni e l’Europa. Il rapporto mondiale sulla ricchezza del
2012 indica che l’Asia è oggi il "centro di gravità
economico" del mondo e lo resterà per molto tempo. Oltre
18.000 asiatici, soprattutto nel sud-est asiatico, in Cina e in
Giappone, possiedono beni per oltre 100 milioni di dollari, mentre il
Nord America ne ha 17.000 e l’Europa 14.000.
Secondo la “Bocconi
dell’Asia”, l’università thailandese Sasin Chulalongkorn ,
l’Asia è campione del mondo in disuguaglianza tra ricchi e poveri
e la Thailandia è in testa alla classifica asiatica. E in Cina, in
India e Indonesia - i principali motori di crescita economica del
continente– la grande disparità di reddito continua a crescere
creando gravi tensioni sociali e nuovi conflitti. I generatori di
disuguaglianza, secondo l’Asian Institute of Technology, sono la
disparità di accesso ai servizi pubblici, quali l'educazione,
l’energia, l’acqua , la salute pubblica e il credito.
Disuguaglianza e disparità di opportunità sono dunque il nemico da
battere per chi vorrebbe far diventare l’Asia un campione mondiale
di giustizia e di pace.
Sono sfide di
qualità e grandezza mai viste prime da cui dipendono i destini del
mondo e nessuna comunità o istituzione asiatica può sottrarsi alle
responsabilità da sorella maggiore che ne derivano.
Un suggerimento per il mondo potrebbe venire dalla straordinaria
capacità asiatica di fare comunità, cioè anteporre il bene comune
all’interesse privato. O, come ha scritto Luis Antonio Tagle, 54
anni e dal 2012 Cardinale di Manila nelle Filippine (il più grande
paese cattolico in Asia), scegliere tutti i giorni nei fatti la
comunità cristiana felice di stare insieme, “la gente di Pasqua”,
come modello di amore quotidiano per salvare il pianeta.
Sandro Calvani
Direttore
del Centro ASEAN
sugli Obiettivi di sviluppo del millennio
dell'Organizzazione delle
Nazioni Unite
Sgomento, paura e pianto hanno colto i cattolici dell’Asia alla notizia che Benedetto XVI avrebbe rinunciato al ministero petrino. Il papa tedesco non ha mai viaggiato nel continente asiatico, eccetto che in Medio Oriente, Terrasanta e Libano. Ma la sua figura delicata e profonda, con parole dense che nascono dal silenzio, ha colpito molti asiatici per i quali la meditazione e la spiritualità sono la base della vera vita.
Nei messaggi ricevuti da AsiaNews vi sono buddisti che lo ringraziano per aver sottolineato il valore del distacco in un mondo che rischia di soffocare nel materialismo; musulmani che hanno appreso da lui a schierarsi con fermezza contro la violenza giustificata in nome della religione; perfino atei si sono avvicinati al rispetto per Dio, grazie alla testimonianza di questo papa che addita il fondamentalismo religioso e il relativismo laicista come i problemi più gravi per la pace nel mondo.
Dal discorso di Regensburg fino ai messaggi di questi giorni, egli mette in guardia tutte le religioni a non pretendere di affermare la verità con la violenza, ma con la testimonianza. E al mondo della dittatura del relativismo (soprattutto occidentale ma non solo), a esigere il rispetto della verità e l’apertura della ragione anche ai valori spirituali, superando il pragmatismo e il materialismo.
L’Asia, il continente più popoloso – quasi quattro miliardi di persone – che contiene le Chiese più piccole (1-2% della popolazione, oltre qualche sparuta eccezione) è segnato proprio da questi problemi. Società antiche e culture millenarie sono state investite in poco tempo dall’uragano della globalizzazione trasformando città e villaggi, creando megalopoli fino a 30 milioni di abitanti, creando ricchezza per molti, ma anche miseria per moltissimi. Questo conflitto fra il pragmatismo mercantilistico e commerciale e le religioni tradizionali spiega almeno in parte la violenza dei fondamentalisti indù, musulmani, buddisti che si vedono rifiutati dalla modernità e dal benessere di pochi.
Invece di trovare un modo di dialogare, frange religiose estremiste
combattono contro l’influenza “americana” (occidentale), contro lo
Stato moderno, contro il lavoro in fabbrica, le dighe idroelettriche, e
il dialogo con gli stranieri. Gli “stranieri” – e i loro alleati nei
Paesi asiatici – hanno preferito sempre programmare e costruire in nome
del profitto più alto e secondo una razionalità del potere assoluto,
dimenticando ed emarginando gli uomini e le culture.
Le Chiese dell’Asia si trovano all’incrocio di queste tensioni:
senza nessuna paura o tabù della modernità riescono a vivere la fede
negli uffici delle grandi città, ma anche nella penuria estrema delle
campagne; in contatto con culture straniere, che non demonizzano, sono
amiche anche delle culture locali. Nel loro impegno alla ricerca del
bene ovunque sia, essi valorizzano il moderno, la dignità della donna;
desiderano cambiare leggi ingiuste, come quella sua blasfemia in
Pakistan, o quelle che emarginano i dalit, gli intoccabili dell’India.
Per questo essi sono spesso visti come nemici e posti come obiettivo da
distruggere dai gruppi estremisti religiosi. In più, fra le culture
claniche, che esaltano il gruppo e la tribù sull’individuo, le Chiese
affermano il valore della persone, dell’io, della sua libertà e dignità,
creata da Dio e amata da Cristo.
Questo mette i cristiani in cattiva luce anche da parte di quei regimi atei e pragmatici –
come la Cina, il Vietnam, la Corea del nord – che hanno fatto del
potere ideologico ed economico il motivo della loro sussistenza. Va
anche detto che questi regimi sono aiutati proprio dall’Occidente
pragmatico e materialista, che ha dimenticato le sue radici cristiane.
L’Asia, con le Chiese più antiche (quella di Gerusalemme e dell’Asia minore)
e con quelle più giovani (le ex repubbliche sovietiche e la Mongolia,
di poche centinaia di fedeli), desidera un papa che faciliti questo
dialogo fra le tradizioni e la modernità; che parli in favore della
libertà religiosa, contro il fondamentalismo e il laicismo; che sostenga
l’individuo dal grembo materno fino alla morte. Insomma, un papa che
continui e completi l’opera di Benedetto XVI. E non importa che sia
asiatico o africano od occidentale: è importante che sia universale, che
in nome di Gesù sappia far dialogare i popoli e i continenti.
Bernardo Cervellera
Mancherà il più famoso. A tratti, il più combattivo: iI 13 gennaio del 2012 il cardinale Joseph Zen ha compiuto ottanta anni, perdendo così automaticamente il diritto di prendere parte al conclave. Di lui si dice sia stato nominato cardinale in pectore da papa Giovanni Paolo II, di certo si sa che l’incarico ufficiale nel concistoro del 24 marzo 2006 sotto il pontificato di Benedetto XII. Nato come Chen Rijun a Shanghai nel 1932, è nominato vescovo di Hong Kong nel 2002. Nel 1949, dopo la salita del governo comunista, Joseph si rifugia nell’allora colonia britannica di Hong Kong. Nel 1961 viene ordinato prete dell’ordine dei salesiani. È conosciuto come “La nuova Coscienza di Hong Kong” proprio per il suo impegno nella lotta per i diritti umani e per la libertà politica e religiosa.Spesso in disaccordo con il Partito Comunista Cinese, lo ha criticato in numerose occasioni, definendo per esempio l’episodio di Tian An Men un “ Grande Errore” e richiamando il governo a “Dire la verità”, oltre che lottando per quello che lui ha chiamato Democratize China.
In tutto l''Asia conta 11 cardinali in Conclave. Eccoli in ordine alfabetico.
Sua Eminenza il cardinale George
Alencherry, Arcivescovo Maggiore di Ernakulam-Angamaly dei
Siro-Malabaresi (India), è nato in una famiglia cattolica del Kerala
(India) il 19 aprile 1945, nella parrocchia
di Thuruthy, nel territorio dell'arcieparchia di Changanacherry dei
siro-malabaresi, è il sesto dei dieci figli di Philipose e Mary
Alencherry. Il
suo nome di battesimo è Geevarghese. Due fratelli sono sacerdoti – José e
Francis – e una sorella, Cherupushpam, è religiosa della congregazione delle
suore dell'adorazione del Santissimo Sacramento.
Sua Eminenza il cardinale Julius Riyadi Darmaatmadja, arcivescovo emerito di Jakarta (Indonesia), Ordinario
Militare emerito per l'Indonesia, è nato il 20 dicembre 1934 a Muntilan,
Magelang - Giava Centrale, Indonesia. Gesuita, il 18
dicembre 1969 è ordinato sacerdote.
Intensa
è stata la sua attività di studi e di apostolato.
Sua Eminenza il cardinale Ivan Dias, prefetto emerito della Congregazione per
l'Evangelizzazione dei Popoli, Arcivescovo
emerito di Bombay (India), è nato in Mumbai il 14 aprile 1936.
È stato ordinato sacerdote a Bombay l'8
dicembre 1958.
Sua Eminenza il cardinale Oswald
Gracias, arcivescovo metropolita di Bombay (India), è nato a
Bombay - ora Mumbai - il 24 dicembre 1944. È originario della parrocchia di San
Michele a Mahim, nell'arcidiocesi di Bombay, dove è cresciuto ed è
stato ordinato sacerdote il 20 dicembre 1970 dal cardinale Valerian
Gracias, allora arcivescovo di Bombay.
Sua Eminenza il cardinale Albert
Malcolm Ranjith Patabendige Don, arcivescovo metropolita di Colombo
(Sri Lanka), è nato il 15 novembre 1947 a Polgahawela, in diocesi
di Kurunegala. Primogenito e unico maschio con tre sorelle, è
cresciuto in una famiglia di tradizione cattolica, frequentando una
parrocchia retta dal missionario francese Jean Habestroh, degli oblati
di Maria Immacolata. Chierichetto, ha studiato dai Fratelli delle
scuole cristiane (Lasalliani), poi a diciotto anni è entrato nel
seminario maggiore nazionale di Kandy, dov'è rimasto fino al 1970. Il
4 dicembre di quell'anno - di ritorno dall'Australia - Paolo VI, primo
Papa a mettere piede sull'isola, fece una sosta nell'aeroporto di
Colombo, dove celebrò la messa.
Inviato dal cardinale Cooray al Collegio di
Propaganda Fide a Roma per completare gli studi teologici, è stato
ordinato sacerdote, con altri 358 diaconi di tutto il mondo, da Papa
Paolo VI il 29 giugno 1975, durante una solenne concelebrazione nella basilica di San
Pietro.
Sua Eminenza il cardinale Jean-Baptiste
Pham Minh Mân, arcivescovo di
Thàn-Phô
Hô Chí Minh, Hôchiminh Ville (Viêt
Nam), è
nato nel 1934 a Ca Mau, nella diocesi di
Cân Tho. , è
nato nel 1934 a Ca Mau, nella diocesi di
Cân Tho. Il 25 maggio 1965 è stato ordinato sacerdote
nella Cattedrale di Cân Tho dal vescovo Jacques Nguyên
Ngoc Quang.
Sua Beatitudine
il cardinale Béchara Boutros Raï, Patriarca di Antiochia dei Maroniti (
Libano), è nato
il 25 febbraio 1940 nell’arcieparchia di Antélias, a Himlaya (lo
stesso villaggio che ha dato i natali a Rafqa Ar-rayes, la prima santa
dei maroniti). Ha compiuto gli studi secondari al Collège Notre
Dame de Jamhour, diretto dai padri gesuiti. Dopo aver emesso i
voti religiosi nell’ordine maronita della Beata Vergine Maria (mariamita). È stato ordinato sacerdote il 3 settembre 1967.
Sua Eminenza
il cardinale Luis Antonio
Tagle, arcivescovo Metropolita di Manila (
Filippine), è nato a
Manila il 21 giugno 1957, da Manuel Topacio e Milagros Gokim. La sua
famiglia vive a Imus, provincia di Cavite, nel territorio parrocchiale
della cattedrale di Nostra Signora del Pilar, dove «Chito» — come
lo chiamano soprattutto i giovani — è stato battezzato. E' stato ordinato sacerdote il 27
febbraio 1982 dal vescovo di Imus, Felix
Pérez Paz.
Sua Eminenza
il cardinale John Tong Hon, Vescovo di Hong Kong
(Repubblica Popolare Cinese), è nato il 31 luglio 1939 a Hong Kong, da genitori non
cattolici. È il primo di tre figli: ha un fratello -
sposato, con tre figlie - in Canada e una sorella che vive a Hong Kong con
l'anziana mamma. Aveva appena due anni quando con la famiglia dovette
trasferirsi a Macao, luogo di nascita della madre, a causa dell’invasione
giapponese. Per salvarlo dalla furia della guerra, i genitori lo mandarono dalla
nonna paterna, in un villaggio nella provincia di Guangdong. Lì è vissuto fino
all’età di sei anni.
Alla fine della guerra, il 15 agosto 1945, ha potuto riabbracciare la
famiglia a Canton e iniziare la scuola elementare. Per la malattia e poi per la
morte del padre, che faceva il ragioniere, è stata la mamma, la prima a
battezzarsi, con il suo lavoro di insegnante, a mandare avanti la famiglia che
è poi riuscita a raggiungere Hong Kong.
La vocazione sacerdotale di John Tong Hon è scaturita dall'esempio della
mamma e dalla testimonianza del parroco, Bernard Meyer, e dei suoi confratelli
missionari statunitensi di Maryknoll che, nel pieno della lotta fra comunisti e
nazionalisti, si sono prodigati per assistere i feriti e le persone in
difficoltà. Proprio il parroco gli ha dato la possibilità di frequentare la
scuola elementare cattolica Ming Dak di Guangzhou.
È stato ordinato sacerdote da Papa Paolo VI il 6 gennaio 1966.
Sua Beatitudine i
l cardinale
Baselios (Isaac) Cleemis Thottunkal, arcivescovo maggiore di
Trivandrum dei Siro-Malankaresi (India), è nato il 15 giugno 1959
a Mukkoor, (Mallapally), nell’arcieparchia di Tiruvalla, nello Stato
del Kerala. Ha iniziato a frequentare la scuola statale Saint Mary’s
a Kunnamthanam, per proseguire gli studi superiori nella Saint
Mary’s High School di Anikad. Il 10 giugno 1976 è entrato nel
seminario minore Infant Mary’s di Tiruvalla, accolto da don
Zacharias Mar Athanasios, poi divenuto vescovo. Ha completato la
formazione filosofica nel seminario Saint Joseph di Alwaye e
quella teologica nel Pontificio Istituto di filosofia e religione a
Pune.
È stato ordinato sacerdote l’11
giugno 1986.
Sua Eminenza
il cardinale Telesphore Placidus Toppo, arcivescovo di Ranchi (
India), è nato il 15 ottobre
1939 a Chainpur (diocesi di Gumla). Appartiene alla tribù Kurukh (Oraon) ed è il primo
cardinale aborigeno dell’India (Adivasi). Ricevuta l'ordinazione sacerdotale il 3 maggio 1969, a Himmelried in Svizzera, ha
ricoperto incarichi di insegnante. Ha viaggiato molto, conosce le lingue kurukh, sadri, hindi, inglese, latino, santhali,
italiano, tedesco, ed è stato testimone di importanti eventi della Chiesa che è in India.
Papa Benedetto XVI ha in più occasioni dimostrato di avere nel cuore l’Asia, il continente dove vive oltre la metà della popolazione mondiale e i cristiani sono il 3 per cento.
Una predilezione speciale Ratzinger l’ha manifestata per la Cina, dove la Chiesa vive una situazione a dir poco difficile, minoranza organizzata ma a lungo perseguitata (i cattolici sono circa 12-13 milioni su una popolazione di almeno un miliardo e trecento milioni di persone).
Dopo un solo anno dall’elezione, Ratzinger crea
cardinale Joseph Zen Ze-kiun, il combattivo vescovo di Hong Kong (ora emerito). Nel 2007 pubblica la
Lettera ai cattolici cinesi, in cui apre al dialogo con Pechino, ma al contempo conferma i punti essenziali della fede cattolica, tra i quali la possibilità-necessità per il Papa di nominare liberamente i vescovi. Nel 2010 il Papa nomina il salesiano Savio Hon , teologo di Hong Kong, come numero due della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Sia Hon che Zen fanno parte della Commissione per la Chiesa in Cina, istituita da Benedetto XVI.
Un altro segno di predilezione per la Cina lo si evince dalle parole pronunciate dal Papa il 29 maggio 2010 in occasione del quarto centenario della morte di padre Matteo Ricci, il gesuita marchigiano che rappresenta un esempio riuscito di unione feconda tra fede e ragione.
La Costituzione cinese prevede libertà di credo per i cittadini;
sottopone, però, la pratica religiosa al controllo: riti e celebrazioni
sono possibili solo nei luoghi autorizzati. Le cinque religioni ammesse sono: buddhismo, taoismo, islam, cattolicesimo e protestantesimo (Pechino li distingue come religioni diverse). È attraverso l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi che il Governo interferisce nella vita della Chiesa,
dalla gestione dei seminari alle attività sociali. Ciò ha prodotto una
frattura fra i cattolici: c’è una “comunità ufficiale” che accetta tale
situazione, mentre chi rifiuta l’ingerenza del potere politico è
considerato “clandestino”. Nella scelta dei vescovi il Governo pretende
di sostituirsi all’autorità del Papa: ciò ha costretto la Santa Sede a
intervenire negli ultimi anni con alcune scomuniche.
Gerolamo Fazzini
È fra le nuove potenze economiche e politiche mondiali ed è ben rappresentata anche in Conclave: col suo miliardo e duecentomila abitanti, l’India si presenta orgogliosamente come “la più grande democrazia del mondo”. La sua Chiesa arriva nella Cappella Sistina con una pattuglia di cinque cardinali, la metà del gruppo di porporati provenienti dall’Asia. I cinque sono espressione di una realtà diversificata e plurale, articolata in comunità cattoliche di tre riti differenti: latino, siro-malabarese, siro-malankarese.
Al rito latino, giunto in India coi missionari dell’età moderna, in testa i francescani e il gesuita san Francesco Saverio, appartiene il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay e presidente della Conferenza episcopale interrituale. Con lui vi sono altri due prelati latini: il cardinale Ivan Dias, ex prefetto del dicastero vaticano di Propaganda Fide, che oggi si dedica all’assistenza spirituale di sacerdoti e seminaristi; e il cardinale Telesphore Toppo, arcivescovo di Ranchi, anch’egli impegnato in Vaticano nella Commissione di vigilanza dello Ior, ma noto nel Paese per essere il primo cardinale proveniente da un gruppo etnico tribale, gli aborigeni Oraon.
Completano il quadro due arcivescovi maggiori, leader delle due antiche chiese cattoliche di rito orientale, eredi della predicazione di san Tommaso apostolo: George Alencherry, a capo della comunità siro-malabarese, e il giovanissimo cardinale Baselios Thottunkal, siro-malakarese che, con i suoi 53 anni, è “la mascotte” del collegio cardinalizio.
I cardinali indiani portano a Roma una realtà che vede la chiesa cattolica come forza morale e sociale di grande rilevanza: pur essendo un’esigua minoranza, (il 3% in una nazione che conta 800 milioni di fedeli indù e 150 milioni di musulmani), i cristiani contribuiscono in modo decisivo allo sviluppo della nazione. Detengono, infatti, il 20% dei servizi educativi e sociali dell’intero territorio, attraverso una rete di istituzioni riconosciute come fondamentali per il Paese. Anche perché l’impegno dei fedeli, simboleggiato dalla figura di Madre Teresa di Calcutta e dalle sue Missionarie della carità, si rivolge a poveri, tribali, emarginati, diseredati, e mira a sanare le profonde fratture esistenti nella società: le discriminazioni derivanti dal sistema castale; la distanza fra le élite urbane e le grandi masse dell’India rurale; la condizione di subalternità delle donne, vittime di stupri, infanticidi e aborti selettivi; la polarizzazione religiosa e i conflitti intercomunitari, aumentati negli ultimi anni.
Sono “le due Indie”, che rappresentano un’opportunità e una sfida per i cristiani: l’India dell’eccellenza tecnologica e quella delle baraccopoli; l’India nuova potenza nucleare e quella dei 300 milioni di analfabeti, per lo più nelle aree rurali; l’India dei bramini e quella degli intoccabili: i 250 milioni fuoricasta, detti pària o dalit, considerati alla stregua di “rifiuti umani”. In loro, dice la Chiesa, c’è «il gemito dello Spirito di Dio» che grida la dignità di ogni uomo. Sono milioni di persone soggiogate per secoli attraverso esclusione sociale, privazione economica, alienazione politica, emarginazione culturale.
Fra loro, 20 milioni di cristiani, maltrattati e doppiamente discriminati, che hanno trovato nell’annuncio di salvezza di Cristo un riscatto esistenziale. «Il mistero dell’incarnazione rivela che tutti gli esseri umani sono creati a immagine di Dio, hanno la stessa natura e origine e, redenti da Cristo, godono della stessa vocazione divina. L’incarnazione svela la fondamentale uguaglianza fra tutti gli esseri umani. In queste profonde intuizioni troviamo la fonte ultima di speranza e di forza per stare accanto ai dalit nelle loro lotte e incertezze», ha spiegato il gesuita padre Arul Raja, direttore dell’Istituto per il dialogo fra culture e religioni al Loyola college di Chennai, in Tamil Nadu.
Alla comunità cristiana in India, promotrice del messaggio evangelico di libertà e dignità per ogni uomo, continuano a rivolgersi migliaia di persone: per questo nella Chiesa fioriscono le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, mentre nel Nordest dell’India, negli ultimi trent’anni, si sono registrati oltre 10.000 battesimi di adulti ogni anno.
Questa “preferenza dei poveri”, però, ha il suo rovescio di medaglia e spesso costa cara: persone e istituzioni cristiane sono divenute bersaglio di movimenti e gruppi estremisti indù, fautori dell’ideologia dell’hindutva (induità) che predicando “l’India agli indù” penalizza e colpisce le minoranze religiose. Tale ideologia è stata assorbita perfino in alcuni provvedimenti legislativi, in diversi Stati indiani dove ha governato il partito nazionalista Baratya Janata Party (Bjp). Ne sono un frutto eclatante le cosiddette “leggi anti-conversione” che, in flagrante violazione della libertà religiosa, vietano ai cittadini il passaggio da una fede all’altra. Leggi del genere sono in vigore in Orissa, Madhya Pradesh, Arunachal Pradesh, Gujarat, Chhattisgarh, Himachal Pradesh. E, secondo i cristiani, avvelenano il tessuto sociale seminando odio all’interno della società indiana.
In questo clima d’intolleranza, nel 2012 sono stati censiti 135 attacchi contro cristiani in India, come nota un rapporto del Consiglio globale dei cristiani indiani, organismo rappresentativo dei fedeli di diverse confessioni. Con un bagaglio colmo di tali sfide, l’India guarda al nuovo Papa e attende una nuova stagione per la Chiesa, che corre lungo i binari della nuova evangelizzazione. I cristiani nel Paese di Gandhi chiedono alla Chiesa universale di accogliere il grido e le angosce degli uomini, dei poveri e degli oppressi. E invitano il prossimo pontefice ad abbandonare le tentazioni di autoreferenzialità e a guardare con attenzione alle Chiese periferiche del vasto continente asiatico.
Paolo Affatato
Islamabad, Pakistan
Caos nella politica interna, crescita dell’integralismo islamico e del terrorismo (10mila vittime in un anno), ristagno nell’economia:
il Pakistan di oggi si confronta con una matassa intricata di sfide, che includono il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze religiose. A caratterizzare fortemente la storia e la società pakistana è l’islam: dopo l’Indonesia, il paese è il secondo stato al mondo per numero di fedeli musulmani (il 95% su 187 milioni di abitanti).
Benchè il fondatore della patria, Ali Jinnah, abbia voluto disegnare una nazione laica e democratica – così rappresentata nella Costituzione – negli anni successivi movimenti e partiti islamici integralisti hanno condizionato in modo sempre più incisivo la politica, la società, il sistema giudiziario e l’istruzione pubblica. A restare schiacciate sono le minoranze religiose, soprattutto i cristiani (il 2% della popolazione) e gli indù (l'1,6%), anche a causa di leggi che hanno islamizzato la società.
La
comunità cristiana in Pakistan ha un cappio stretto intorno al collo:
da tempo segnala alla comunità internazionale la "legge sulla blasfemia",
due articoli del Codice penale (295b
e 295c) che puniscono con l'ergastolo o con la pena di morte il
vilipendio al Corano e al Profeta Maometto. La Chiesa locale lo denuncia
da tempo, chiedendo l’appoggio della Chiesa universale e della Santa
Sede, che nel 2010 invia in Pakistan il cardinale Jean-Louis
Tauran, capo del dicastero per il Dialogo Interreligioso.
La
legge continua a essere strumentalizzata e per controversie personali,
mentre non mancano episodi eclatanti di giustizia sommaria a danno
delle minoranze religiose, molto vulnerabili e indifese. E ' di pochi
giorni fa l'assassinio di Roshan Masih, quaranticinquenne cristiano di Lahore,
capitale della provincia del Punjab. L’uomo, riferisce l’agenzia Fides,
aveva avuto una banale discussione con
il musulmano Sohail Akhtar su temi di natura religiosa, che includevano
un raffronto fra cristianesimo e islam. Ahhtar lo ha ucciso a colpi di
fucile, a sangue freddo, ritenendolo blasfemo. Dopo pressioni e denunce
della comunità cristiana, l'omicida è stato
arrestato, ma esecuzioni come questa più volte sono rimaste impunite,
lasciando fra i cristiani sentimenti terrore, precarietà e insicurezza.
Molte
altre sono le vittime di processi iniqui o pilotati, che marciscono in
carcere per anni: fa i casi più recenti, Younis Masih, in prigione
per blasfemia da oltre sette anni, ha subìto un grave attacco cardiaco
un mese fa e si trova in serio pericolo di vita. Fra i presunti blasfemi
è impossibile dimenticare a la storia della cristiana Asia Bibi, la
madre di famiglia condannata a morte e segregata
in carcere da oltre 1.350 giorni. Un caso di persecuzione giudiziaria
che un istituto di studi fondato da intellettuali musulmani liberali, il
“Jinnah Institute” di Karachi, ha definito “viziato da palesi
irregolarità procedurali”, oltre che da false accuse.
Negli interrogatori preliminari condotti dalla polizia, infatti, Asia
Bibi non ha avuto un avvocato, e per questo tutto il processo dovrebbe
essere invalidato. La donna, inoltre, nota l’istituto, è stata giudicata
da un tribunale “sotto evidenti pressioni
di islamici estremisti”, e “per una vendetta personale”.
Il “Jinnah Institute” è stato diretto da Sherry Rehman, parlamentare musulmana del
Pakistan People’s Party, oggi ambasciatore pakistano negli Stati
Uniti. Anche lei, personaggio di spicco della politica e della
diplomazia, sarà processata per blasfemia: lo ha deciso la Corte
Suprema, con un clamoroso pronunciamento. La Rehman fu denunciata
nel febbraio 2011 da un commerciante che la accusava di aver commesso
blasfemia durante un talk-show su
Dunya TV. Dai teleschermi la Rehman aveva difeso Asia Bibi e
aveva spiegato la proposta, da lei presentata al Parlamento pakistano,
di revisione della legge. Ma, dopo gli omicidi di Salman Taseer e di
Shahbaz Bhatti, la Rehman, minacciata di morte, aveva
ritirato la mozione. Intanto un tribunale di Lahore aveva respinto la
denuncia, e la vicenda sembrava conclusa. Ora invece i giudici hanno
dichiarato l'ammissibilità delle accuse, riaprendo la ferita della
blasfemia in Pakistan.
Islamabad, Pakistan
Un
tempo era Mohammed Ayub, oggi, col battesimo, è Ayub Masih. “Masih” in
urdu significa “cristiano”ed è l’appellativo che identifica molti dei
fedeli pakistani.
Per Ayub il cambio di nome è stato il passaggio più facile, ma quello
che rappresenta – la conversione dall’islam al cristianesimo – è stata
una svolta di vita tutt’altro che semplice. Irta di pericoli,
difficoltà, minacce di morte.
Nel viaggio verso la fede
cristiana, Ayub ha attraversato “un deserto” in cui ancora si trova,
costretto al nascondimento. Anche se oggi è confortato dagli affetti
della sua famiglia e, soprattutto, dall’aiuto della Provvidenza.
«Da
quando ho abbracciato la fede cristiana, ho perso la mia casa e il
lavoro. Ma io e mia moglie abbiamo una certezza: nella nostra vita c’è
Cristo a sostenerci
e a prendersi cura di noi», dice a Famiglia Cristiana
Ayub, 45 anni, raccontando la storia della sua conversione. Una storia
di salvezza in cui Gesù è venuto «come un tornado a sconvolgere la mia
vita».
Ayub
vive a Sahiwal, cittadina nel cuore della provincia del Punjab, fra
Lahore e Multan. Viene da una famiglia musulmana del ceto medio, lavora
come elettricista
e nel 1998 si sposa con Fatima. Un matrimonio felice, da cui nascono
due figli. La vita sembra scorrere tranquilla, ma un’inquietudine
esistenziale percorre la vita di Ayub. Un giorno un suo collega di
lavoro gli narra la vicenda di un amico, convertitosi
in segreto dall’islam al cristianesimo. Un sentiero pericoloso, perchè
l’apostasia nell’islam è punita con la morte e tanti sono i gruppi
estremisti islamici pronti a compiere, senza indugio, esecuzioni
sommarie degli apostati. «Ero sorpreso e scioccato –
ricorda Ayub – ma sentivo un’attrazione irresistibile, volevo conoscere
quest’uomo. Zubair, questo il suo nome, era riluttante ma, dopo mesi di
insistenza, ha accettato di vedermi».
Dopo
alcuni incontri, Zubair regala ad Ayub una Bibbia: qui si accende,
attraverso la Parola, la luce della Grazia. «Leggendo la Bibbia ho
conosciuto meglio Gesù
Cristo, la sua vita, le sue opere, le sue guarigioni», prosegue.
Leggendo, rileggendo, meditando, uno spiraglio della grazia di Dio
squarcia il petto di Ayub. «La storia della Passione di Cristo ha dato
risposta a tutte le mie domande: Cristo è morto per la
mia salvezza!». Quando questa certezza si fa strada nel cuore di Ayub,
la conversione è già avvenuta. E il cuore trabocca di indicibile gioia e
commozione. «Avevo paura di essere messo a morte per apostasia. Ho
aperto il Vangelo e ho trovato le parole di Gesù:
non abbiate paura. Ho messo tutte le mie paure e preoccupazioni nelle
mani di Dio. Ho preso coraggio e sono andato da un sacerdote che mi ha
battezzato».
La
storia della vita di Ayub Masih cambia radicalmente. Ayub ora è immerso
in Cristo, è “una creatura nuova”. Prega perché anche la moglie possa
convertirsi. Fatima
si incuriosisce, vedendo il marito ruminare la Bibbia. Ayub confida
alla moglie di essere un discepolo di Gesù. E le sue preghiere vengono
ascoltate: anche Fatima si converte e viene battezzata. I due figli lo
saranno ben presto.
Le
vicende spinose iniziano ora. La notizia della conversione fa presto il
giro del quartiere e i parenti di Ayub sono i primi a scandalizzarsi e
adirarsi. Dalla
rabbia alle minacce il passo è breve.
Comincia un calvario fatto di
lettere minatorie, mentre loschi figuri piombano nottetempo in casa,
intimando “il ritorno all’islam o la morte”. La famiglia viene cacciata
di casa, proprietà del padre di Ayub. Dopo un attentato
con armi da fuoco, a cui Ayub scampa per miracolo, la famiglia è
costretta a fuggire. E’ un viaggio nel “deserto”, quando non si sa dove
andare e a cosa si andrò incontro. «Eravamo spaventati, ma certi
dell’aiuto di Dio», nota.
Scatta
una gara di solidarietà. Ayub viene accolto da un’altra comunità
cristiana e famiglie di fedeli si prodigano per non fargli mancare
nulla. La vita ricomincia,
in tutt’altro posto, con altro nome. Nel nascondimento ma, finalmente,
nella libertà dei figli di Dio.
Paolo Affatato
È il Paese più cattolico d’Asia, ma anche quello in cui la globalizzazione sta avendo un riscontro spesso invadente e negativo. Le Filippine, con i loro 91 milioni di abitanti, nella stragrande maggioranza (81%) cattolici, sono un prisma interessante per osservare i mutamenti in atto nel nostro tempo. È uno dei Paesi di maggior emigrazione in diverse parti del mondo (ad esempio i Paesi del Golfo persico); una terra spesso oggetto di sfruttamento commerciale (miniere, impianti di estrazione di materie prime, …).
C’è poi il confronto con l’islam radicale, impersonato dai movimenti di ribellione secessionista nell’isola meridionale di Mindanao, che sognano una secessione islamica e fanno filo da torcere al governo centrale di Manila, responsabile spesso di violenze su larga scala contro la popolazione civile. Le Filippine sono anche un luogo in cui tradizione e modernità si incontrano e scontrano: a fianco di una fede popolare ancora molto radicata, affiorano forti tendenze di secolarizzazione. Come la legge sul controllo delle nascite, che i diversi Governi recenti hanno cercato di introdurre e contro le quali la Chiesa, nella sua globalità (gerarchia e popolo) ha opposto una strenua e vincente opposizione.
Araldo di questo cristianesimo popolare è il giovanissimo (56 anni) cardinale di Manila, Luis Antonio «Chito» Gokim Tagle. Gokim come il cognome di sua madre, cinese, «tanto che nelle Filippine tantissimi si stupiscono che sia filippino: dal volto pensano che sia cinese». Teologo di spessore, Tagle è un prelato decisamente alla mano, mite e radioso. Lontano dal fare paludato di tanti monsignori, una volta nominato arcivescovo di Manila (2011) tenne per diverso tempo per sé la scelta di Benedetto XVI: «Pensavo che forse il Papa avrebbe cambiato idea», confessò in seguito.
Ratzinger non lo fece. Conosceva da tempo Tagle: l’aveva incontrato per la prima volta nel 1997,
appena quarantenne, presentandolo a Giovanni Paolo II come membro della
Commissione teologica internazionale. Vi è chi ha riferito la simpatica
battuta che Ratzinger fece a Wojtyla introducendogli il
prete filippino: «Santità, anche se sembra giovane, molto giovane, stia
tranquillo: ha già fatto la prima comunione». Un pastore semplice e umile, Tagle.
L’attuale cardinale di Manila, quand'era vescovo a Imus, popoloso sobborgo della capitale (3 milioni di abitanti), era
solito uscire dalla cattedrale ed invitare a pranzo i poveri che sul
sagrato stazionavano per l’elemosina. Il vaticanista John Allen ha
ricordato la vicenda di una donna di Imus: «Un giorno mi misi in cerca
di quell’ubriacone di mio marito, un disoccupato perso in fondo a un bicchiere. Pensavo di doverlo tirar
fuori dall’ennesima taverna: me lo ritrovai a tavola col nostro
vescovo!».
Uomo di Dio vicino alle sofferenze del suo popolo, Tagle spicca per
capacità di comunicazione: al Congresso eucaristico internazionale del
2008 in Quebec il suo intervento fece commuovere l’intero stadio dove
si teneva l’assise. Raccontò come una venditrice al mercato della sua
Imus gli avesse insegnato a lui, rappresentante ufficiale della Chiesa,
la fede dei semplici, spesso più radicata e radicale di quella di tanti
intellettuali.
In un Paese a larga maggioranza cattolica come le Filippine, Tagle
non ha timore di levare la voce ogni qualvolta vi sia da difendere la
verità dell’uomo e la solidarietà verso gli ultimi: «Non c’è dubbio che il mondo abbia bisogno di guarigione – ha scritto in Gente di Pasqua. La comunità cristiana, profezia di speranza
(Editrice Missionaria Italiana), libro in uscita in questi giorni -. La
morte senza senso di innumerevoli persone, specialmente di bambini, ci
mostra quanto è ferito il nostro mondo. Persino la natura è gravemente
ferita. Che la morte sia inflitta dalle armi da fuoco o dai debiti non
pagati, dall’embargo o dalla persecuzione, è un abuso di potere che
uccide. Il potere usato per dominare o costringere non dona vita. La
chiesa primitiva faceva affidamento sulla potenza del nome di Gesù
crocifisso». Per questo i cristiani devono tornare alla fonte della loro
fede: «Il nome di Gesù guarisce perché egli ha preso su di sé tutte le
ferite piuttosto che ferire gli altri. Il suo amore è la forza che
unisce le persone e fa loro formare una comunità».
Lorenzo Fazzini
Ho Chi Minh City, Vietnam
In un Paese dove vige ancora il comunismo di Stato, vi è una metropoli dove si celebrano 9 mila battesimi di adulti all’anno. A Ho Chi Minh City, l’ex Saigon, capitale del Vietnam, le strade rimangono imbandierate con le effigie del celebre «Zio Ho» e i suoi inviti a «credere» nel potere del Partito e del proletariato. Ma è la Chiesa cattolica ad essere identificata dalla gente comune come il luogo della libertà e della vera solidarietà. Padre John Nguyen Van Ty, già superiore dei salesiani, consigliere del cardinale Pham Minh Manh, è esplicito: « I comunisti hanno paura dei cattolici perché sono la religione organizzata più forte in tutto il paese. Ma tra gli intellettuali, docenti universitari, studenti e giornalisti, si inizia a capire la realtà, cioè che il comunismo opprime, e vedono nella Chiesa un luogo di libertà».
Nella terra che vide l’unica sconfitta militare degli Stati Uniti i cristiani raggiungono l’8% della popolazione: il Vietnam è il secondo Paese più cattolico d’Asia per percentuali di credenti, dopo le Filippine. Seppur sotto il ferreo controllo comunista, i cattolici – 6 milioni – si impegnano con forza in azioni di carità, solidarietà e forte vicinanza ai sofferenti: «I dirigenti dello Stato hanno capito che la Chiesa non è una forza ostile e che non lavora per prendere il potere – afferma Jean-Baptiste Pham Minh Mân, cardinale di Ho Chi Minh City -. Diversi di loro mi hanno detto grazie per l’impegno della Chiesa nel campo della carità». I cristiani del Vietnam testimoniano come non siano le strutture a fare la Chiesa, ma le persone e le comunità. Si pensi, per esempio, alle tante chiese confiscate dal regime: ad Hanoi il convento carmelitano dove voleva recarsi come missionaria Santa Teresa di Lisieux è stato trasformato in un ospedale; un’altra chiesa è diventata un magazzino. Solo nella capitale si contano almeno 90 tra edifici, terreni e strutture requisiti e mai più tornati in possesso della Chiesa.
Lo conferma un vescovo di una diocesi degli Altopiani centrali, la zona dove abitano le etnie indigene, molto sensibili al cristianesimo (qui si registra il picco di conversioni alla fede cristiana). Il presule chiede l’anonimato per motivi di sicurezza: «Dalle nostre parti le autorità pubbliche hanno ancora paura dell’influenza di preti e religiosi perché vedono il cristianesimo come una forza straniera che vuole rovesciare il governo». Proprio nella diocesi di Kon Toum, il centro più importante degli Altopiani, la repressione comunista in passato è stata molto pesante: con l’arrivo dei comunisti già nel 1973 tutti gli edifici ecclesiastici, comprese le chiese, sono stati confiscati: «Non ci rimase più niente, se non la Bibbia in mano» ci confessa un religioso che visse quei tempi bui.
Di fronte a questa pressione avversa i cattolici vietnamiti non si scoraggiano, anzi: «Di recente le autorità pubbliche mi hanno scritto parole di elogio sulle suore e i religiosi che lavorano nei centri statali per malati di Aids: “Solo i cattolici hanno un cuore nell’occuparsi di questi pazienti”. Se pensiamo alla storia è proprio la carità che tocca i non cristiani» annota Pham Minh Mân. «Negli Atti degli Apostoli i pagani sostenevano che quella dei cristiani era la religione della carità. Nel XVI secolo, quando sono venuti da noi i missionari francesi, la gente diceva che portavano la religione dell’amore. Oggi accade lo stesso per bocca delle autorità comuniste».
Lorenzo Fazzini