Torna alla ribalta la vergogna del “suicidio assistito”. La notizia è che un uomo che aveva deciso di farsi aiutare a morire, con il suicidio assistito in Svizzera, perché pensava di avere “un’incurabile malattia” in realtà si era sbagliato, una verità che è emersa dall’autopsia richiesta dai famigliari sconvolti dal suo gesto e indignati dall’aiuto (vengono i brividi a usare questo termine) fornitogli dai medici (altri brividi: verrebbero anche a Ippocrate…) di Basilea.
Indignati lo siamo anche noi, lo dovrebbero essere tutti in una società che sta imboccando sempre più una direzione di morte, anziché di vita. Indignati che un uomo alle prese con una sofferenza, di qualunque genere sia, trovi l’aiuto di chi ti inietta il veleno e ti uccide. Una specie di pena di morte, però richiesta e accordata con lo spirito del buon samaritano, che ti toglie qualunque problema, per sempre. Niente più paura dolore, sofferenza… e nemmeno amore, affetto, conforto. Tutto finito, come si è sentito dire il fratello quando i “medici” gli hanno telefonato per avvertirlo di andarselo a prendere. Lui ha urlato che voleva parlargli, perché forse con amore, affetto e conforto traduceva la parola “aiuto”, ma era troppo tardi. Problema risolto. Aiuto fornito.
Indignamoci e gridiamo forte anche noi. Che aiuto è ben altro. Che a spegnere la candela son capaci tutti. E’ tenerla accesa che costa. Bisogna interessarsi alle persone, stare accanto, rischiare il dolore e la paura, dire piuttosto “dammi un pezzetto della tua disperazione, te la custodisco io…” e prima ancora accorgersi di quella disperazione che spesso serpeggia al di là di una vita apparentemente bella e sorridente…
Indignamoci e gridiamo forte,per rispondere a quanti ora pensano “peccato, se non era malato, non c’era bisogno di suicidarsi…” come se invece in quel caso il bisogno ci fosse. Gridiamo forte, almeno quelli che la malattia l’han conosciuta, che non è quella in sé stessa che spinge al desiderio di morire (perché in realtà è proprio in quei momenti che vuoi ancor più caparbiamente e consapevolmente vivere) , ma piuttosto lo sguardo degli altri, il disinteresse, la lontananza, il giudizio su una vita “che non val la pena di vivere”, l’aria che - accorgiamocene - si respira sempre di più, che vorrebbe confondere il boia che si china con l’iniezione letale in mano con il medico che ha giurato di salvarti la vita.
Indignamoci perché la morte di Pietro D’Amico non rimanga un’assurda pena di morte legalizzata e rivestita da una falsa aurea di condivisione e un enorme dolore della sua famiglia, ma sbocci in una riflessione che smuova le coscienze di fronte all’avanzare (perché l’Italia, attenzione, non è lontana dalla Svizzera e non solo geograficamente) dei mercanti di morte.