« Ogni confine è una storia che raccontiamo per giustificare l'imposizione di una linea arbitraria» dice James Crawford, autore di Maledetti confini (Bollati Boringhieri, pp. 416, euro 28), appassionante viaggio tra antichi e nuovi confini di tutto il mondo. Dal “primo confine”, che risale al XXI secolo a.C. e divideva le terre di Lagash e Umma, in Mesopotamia, fino alle trincee della Grande Guerra; dal filo spinato attorno a Melilla, al “serpente” di cemento armato in Palestina.
I confini sono terre d’incontro, ma più spesso di opposizione, scrive Crawford. Eppure, ne siamo irresistibilmente attratti, proprio per il loro essere, in definitiva, così innaturali: « I confini ci attraggono perché sono innaturali e creano un bisogno di renderne conto e di razionalizzarli, anche quando sappiamo che sono per natura irrazionali: i confini politico/territoriali, infatti, non esistono in natura, ma sono storie che raccontiamo per giustificare l’imposizione di una linea arbitraria» spiega l’autore. « È questo che li rende così mutevoli e potenti. Tornando al primo resoconto di una linea di confine - una storia di 4.500 anni scolpita in caratteri cuneiformi sumeri su un pilastro di pietra sulla linea tra due città mesopotamiche -, si racconta che il confine fu tracciato dal padre degli dèi all'inizio dei tempi; se combinate con l'ascesa degli Stati nazionali alla fine del XVII secolo, queste storie diventano fonti chiave di identità culturale. Ma i confini sono anche promemoria di quanto sia malleabile il mondo; per questo esistono per essere riscritti».
La globalizzazione sembrava averli cancellati: negli ultimi anni siamo tornati a un mondo di confini?
« La caduta del muro di Berlino avrebbe dovuto segnare la fine dei confini; e in Europa, con Schengen, avrebbe dovuto inaugurarsi un periodo di “libera circolazione” per milioni di persone. In realtà, il 21° secolo ha visto il ritorno dei confini: a fine Guerra Fredda c’erano solo 12 muri di confine in tutto il mondo, ora sono circa 74, la maggior parte dei quali costruiti dall’inizio degli anni 2000. È cambiato però ciò che queste linee dividono: molto meno le Nazioni, molto più i ricchi dai poveri. Il confine è diventato un mezzo per incanalare e fermare i migranti. È ironico pensare che la globalizzazione, che sembrava presagire la fine dei confini, possa in realtà aver portato, indirettamente, al loro ritorno; questo perché la promessa di un mondo aperto non è mai stata una promessa fatta a ogni persona del pianeta. Quello che stiamo vedendo ora, mentre milioni di persone si muovono alla ricerca di quella promessa, è quanto fosse vana».
Il confine più affascinante che ha visitato?
« È anche il più tragico: la “barriera di separazione” che divide il paesaggio in Israele, Palestina e Cisgiordania. In totale le sezioni del muro si estendono per oltre 700 km, riflettendo la rappresentazione estrema del confine non come separatore di nazioni, ma di due popoli che chiamano casa la stessa sottile fetta di territorio».
I confini possono avere un’accezione positiva?
« Come dice l’ambientalista Laiken Jordhal, “dal punto di vista della conservazione i confini sono naturali”. Esistono molte collisioni naturali di ecosistemi, luoghi di scambio dove si trova la maggior bellezza e biodiversità. Non tutti i confini umani, però, sono luoghi di opposizione; ad esempio, la "Grande Muraglia Verde" dell'Africa mira a creare una linea ininterrotta di alberi e colture lunga 8000 km dal Senegal a Gibuti, per generare trasformazione ambientale e sociale nella regione del Sahel, segnata da desertificazione ed erosione del suolo. Forse questo è un nuovo modello di confine: non linee intorno al territorio, ma “corridoi” attraverso di esso, paesaggi collaborativi che ignorano i confini politici per adattarsi o prevenire le catastrofi climatiche».