Le fotografie di questo servizio sono dell'agenzia di stampa Reuters.
di Edoardo Greppi *
La guerra infinita è anche un contorto intrecciarsi di risoluzioni Onu proposte, votate e violate. La storia ci ha consegnato le pagine di una conflitto che dura ormai da 75 anni. L’attacco di Hamas non ha fatto altro che riaccendere un conflitto mai terminato. Gaza è, peraltro, soltanto uno dei numerosi elementi di una realtà molto complessa e complicata. Si tratta di una “striscia”, una regione costiera di 360 chilometri quadrati con una popolazione di oltre due milioni di persone, di cui un milione e 400.000 con lo status di rifugiati . Dalla “guerra dei sei giorni” (1967) al 2005 la regione è stata occupata militarmente da Israele, e dal 2007 è controllata da Hamas, un’organizzazione terroristica della galassia dell’estremismo islamico. La “striscia” è chiusa in un blocco, e l’accesso è sostanzialmente controllato dall’Egitto. L’80% della popolazione sopravvive grazie agli aiuti umanitari.
Le radici di tanta feroce contrapposizione ci riporta al secondo dopoguerra e ai primi passi della neonata Oganizzazione delle Nazioni Unite. Nel 1947 l’Assemblea generale dell’Onu aveva adottato una risoluzione (la numero 181) che prefigurava la divisione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo, e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. La reazione degli arabi alla creazione dello Stato di Israele (1948) portò alla prima guerra e alla sconfitta araba (1949). Altre guerre seguirono nel 1967 e nel 1973, accompagnate dalla nascita delle organizzazioni politiche (e militari) finalizzate a dare voce alla questione palestinese. In questo contesto, oltre all’Olp (Organizzazione per la liberazione dela Palestina) è nata Hamas, il cui scopo dichiarato era di disconoscere Israele e di alimentare gli scontri nei territori da questo occupati.
Nel 1993 si è accesa una luce di speranza, con la firma degli accordi di Oslo, che avrebbero dovuto porre le basi per la nascita di uno Stato palestinese. Il processo si è interrotto nel 1996 con l’ascesa al governo di Netanyahu. La ripresa degli scontri e la costruzione di un muro di separazione con la Cisgiordania, accompagnati dalla politica di espansione di insediamenti ebraici nei territori palestinesi (Cisgiordania e alture del Golan) e in Gerusalemme est - ripetutamente condannata dall’Onu - hanno portato a una progressiva degenerazione della situazione. Che gli insediamenti ebraici siano un ostacolo alla pace lo ha in ultimo affermato il Palazzo di Vetro il 20 febbraio di quest'anno i una dichiarazione non vincolante approvata all'unanimità a New York. Il voto su una risoluzione - vincolante - è stato invece cancellato dopo una mediazione diplomatica Usa: le parti avevano detto di astenersi per 6 mesi da qualsiasi azione unilaterale. A tempo scaduto, le armi sono tornarte a crepitare.
La politica degli insediamenti di coloni israeliani nei territori palestinesi e l’irrigidimento delle posizioni palestinesi (le cui istanze non hanno trovato rappresentanza unitaria, e vedono una divaricazione tra l’Autorità nazionale palestinese e Hamas) hanno allontanato le prospettive della pace e della realizzazione di una soluzione politica condivisa.
A complicare il quadro, poi, vi è la pluralità di soggetti a vario titolo coinvolti. In prima fila (storicamente dal 1948 e dal 1967) è l’Egitto (che, tra l’altro, controlla l’accesso a Gaza). La Giordania è l’unico Stato che riconosce i diritti di cittadinanza ai palestinesi. Vi è, poi, il Libano, sul cui territorio opera Hezbollah, potente organizzazione estremista islamica che ha le spalle coperte dall’Iran.
Una fiammella di speranza è stata accesa dagli “accordi di Abramo” tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan (funzionali al riconoscimento di Israele da parte degli Stati arabi), ma il feroce attacco di Hamas ne allontana l’attuazione.
Stati Uniti e Unione Europea completano il quadro degli “stakeholders” della Regione. Da essi potrebbero promanare iniziative diplomatiche importanti, ma incontrano diffidenza se non ostilità da parte palestinese.
L’attuale ripresa della conflittualità aperta porta con sé la grave preoccupazione per il rispetto del diritto internazionale umanitario dei conflitti armati, in particolare per quanto riguarda gli obblighi di protezione della popolazione civile. Da molte parti si levano voci che ne reclamano il puntuale rispetto, ricordando che le violazioni di queste norme costituiscono crimini di guerra e comportano la responsabilità penale internazionale di chi li commette.
La parola è ora – drammaticamente – alle armi e alla violenza. La speranza e l’augurio sono che si torni a darla alla diplomazia. Da questa, e solo da questa, potrà finalmente scaturire una pace duratura e, soprattutto, giusta.
* docente di diritto internazionale, Università di Torino