Antonio Conte all'Istituto Don Gnocchi di Milano (foto C. Villa).
Dice: vai a intervistare il commissario tecnico della Nazionale di calcio. Ok, obbedisco. E, siccome il C. T. è Antonio Conte, m’aspetto un grintoso, duro, arrabbiato, scontroso e, perché no, antipatico uomo di calcio. Be’, da oggi in poi, lo chiamerò Ninotchka.
Come chi è Ninotchka? Gente di scarsa memoria! Ma Greta Garbo, la divina, non vi dice niente? Greta Garbo, l’attrice algida, irraggiungibile e mitica che un bel giorno decise di dire sì alla commedia hollywoodiana. Per preparare il lancio del film, Ninotchka, appunto, uscirono manifesti con una dicitura inequivocabile: “Garbo ride!”, con tanto di punto esclamativo. Ecco, da oggi possiamo dire anche noi: Conte ride!
E sorridente è stato l’incontro con il C. T., cioè con l’unico sportivo che sa di essere amato e odiato al contempo, perché siamo un popolo di allenatori, 60 milioni di tecnici pronti a snocciolare la formazione ideale, che non sarà mai, destino cinico e baro, la stessa del C. T.. Quando poi il tecnico, il mister, lo fa uno che appare come una specie di bulldog che punta solo a una cosa, vincere (e forse vinceremo), ecco che sentirsi dire: “Vai e intervista il C. T.” è come ascoltare: “Vai, che noi intanto ridiamo”.
Invece a ridere è lui, Antonio Conte, che un bel giorno entra nella Fondazione Don Gnocchi di Milano, quel posto dove, come diceva il suo fondatore, don Carlo Gnocchi: «Sogno, dopo la guerra, di potermi dedicare a un’opera di Carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una cosa sola: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia “carriera”… Purtroppo non so se di questa grande grazia sono degno, perché si tratta di un privilegio».
Quel privilegio consisteva nella cura degli orfani di guerra e dei bambini mutilati. Poi, il progetto si è trasformato in un centro, oggi punta di diamante della riabilitazione e dell’accoglienza per ogni handicap, motulesi e neurolesi, malformati congeniti, focomelici, distrofici. E qui, dove stare seduti su una carrozzella per disabili è la regola e chi sta in piedi un’eccezione, è arrivato lui, Conte.
Che ci fa tra giovani tetraplegici, adulti che hanno perso l’uso di gambe e mani, gente che non ha più la possibilità di essere produttiva in una società che chiede di esserlo sempre e comunque? È testimonial di uno spot per la Fondazione Don Gnocchi, per sensibilizzare gli italiani su quanto sia importante partecipare alle attività della Fondazione, magari con quel 5 per mille divenuto una delle principali voci con cui la solidarietà si manifesta in forma concreta.
Dice il C. T.: «L’ho fatto per cercare di aiutare persone meno fortunate di me». Attorno a lui il clima è da stadio. Quei giovani sfortunati lo guardano e lo incitano e non manca un gusto tutto loro di ironizzare – addirittura – sui propri handicap, quando uno urla, con la stessa grinta del C. T.: «Antonio, falli correre!!!».
Ridono un po’ tutti, e Conte stesso non può fare a meno di sorridere, commosso di stare in mezzo a quelle carrozzelle. «L’affetto di queste persone fa piacere perché è genuino e naturale; stare qui riempie il cuore perché troppo spesso siamo lontani da questi problemi».
Firma autografi, palloni e cappellini della Nazionale, personalizzando ogni dedica e rendendo un po’ di spicciola felicità a chi di questa parola conosce solo il racconto altrui.
Com’era da ragazzino? «Erano anni in cui si poteva ancora stare in strada a giocare. I genitori mi hanno dato un’educazione ferma, forte, ma poi quello che facevo era mia responsabilità: imparavo a vivere senza la loro tutela».
Sorride ancora e rivendica: «I miei sono stati molto bravi a educarmi e io sono stato forte. Erano altri tempi, la regola era: se sbatti contro un muro è meglio, perché fai esperienza. Oggi è tutto più ovattato, iperprotettivo, e un paragone è impossibile, sono cambiate troppe cose per confrontarci con la generazione attuale».
Conte ha una figlia di otto anni. Come la allena alla vita?
«Io e mia moglie crediamo nell’educazione e nel rispetto. E che le cose vadano conquistate, perché non tutto è dovuto. Nella vita ciò che si ottiene dipende dagli sforzi personali, non da regali dall’alto. Per questo noi genitori abbiamo grandi responsabilità».
Poi, con gli occhi che guardano verso un altrove più intimo, ricorda otto anni fa: «Quando nasce un figlio ti senti più sensibile e scopri la totalità della parola amore. T’accorgi che hai davanti una figura indifesa che va instradata, e se si sbaglia qualcosa si paga duramente».
Mentre parliamo, si esce da una settimana vergognosa, con una partita di calcio tra bambini finita in una rissa tra genitori.
«Stiamo diventando ridicoli. Nel nostro ambiente c’è un detto che fa capire il problema: “Il calciatore più forte dovrebbe essere orfano”. Mio papà non veniva mai allo stadio. Si dice, addirittura, che ci siano genitori che pagano per far giocare i loro figli. È assurdo ma è così. Noi gestiamo un ruolo fondamentale per la crescita dei ragazzi e non possiamo essere portatori di esempi negativi».
E il C. T., da giovane che figura fragile era? Cosa sognava?
«Volevo diventare insegnante di educazione fisica e mi sono laureato in Scienze motorie. Ero un calciatore, sì, ma prima veniva la scuola».
E quel luogo comune che lo vede sempre arrabbiato?
«No, dai, non sono sempre così, lo capisce chiunque e poi ognuno ha un suo modo di comportarsi e di essere. Io sono determinato e cerco di dare tutto quello che ho. E in cambio ricevo tanto, davvero».
Chi è l’allenatore, allora, un padre, un fratello, un tecnico o altro ancora?
«L’allenatore è un educatore, e questo deve bastare».
Scappa sul set dello spot per la Fondazione Don Gnocchi.
La regista gli spiega: lui, come un bravo soldatino, obbedisce. Ciak, si gira: «Ora sorridi, Antonio, e guarda in macchina. Così, bravo». Lui esegue e quel sorriso chiama a raccolta tutti gli italiani, per la Nazionale della solidarietà. Sì, Conte ride!