Era prima di tutto una faccia Rutger Hauer, e un corpo. Intendiamoci: era un attore, e di quelli che sanno fare il loro mestiere, e bene: sapeva quando recitare “a togliere” e quando gigioneggiare. Ma la prima cosa che ti arrivava era quella faccia, quel corpo. Bello e mostruoso, algido e violento, Etienne Navarre (Ladyhawke, 1985) e Hobo with a shotgun (2011). Sapeva far sentire la minaccia silenziosa del suo fisico muscoloso (tantissimi cattivi) come instillare una paura più metafisica - un cattivo su tutti, il killer di The Hitcher (1986), un’apparizione fantasmatica in una fiaba nerissima.
Così mitteleuropeo, l’olandese sembrava emerso come un’entità incorporea da un quadro fiammingo nella concretezza della macchina hollywoodiana. Macchina in cui entrava dalla porta della cinematografia europea come un alieno, esotico, di una diversità evidente. Prima che essere attore era avventuriero, reduce da una gioventù scalmanata, da uno che "non faceva piani, solo quelli di riserva” (a 15 anni si imbarca su un mercantile per seguire le orme del nonno marinaio, colleziona un’espulsione dalla scuola di Arte Drammatica e un ricovero in un’istituo psichiatrico), e un’interessante mescolanza di pragmatismo e caos interiore si rifletteva nelle sue scelte di ingaggio, spesso a cavallo tra lavoro con gli “Autori” e B-Movie, dai film di Ermanno Olmi - La leggenda del Santo bevitore (1988), Il villaggio di cartone (2011) - allo stralunato action fantascientifico nato fuori tempo Detective Stone (1992), seguendo solo lo stimolo di una curiosità insaziabile per i ruoli proposti.
Ricordarlo per il ruolo del replicante Roy Batty in Blade Runner (seconda pellicola Usa nel 1982 dopo l’esordio l’anno prima con I falchi della notte insieme a Stallone) che l’ha proiettato al successo nel cinema americano e alla fama vuol dire fare ‘gioco facile’... ma non il gioco sbagliato. Perché c’è il suo contributo nel famoso monologo finale (citato e parodiato fino al rischio di sfilacciarsi, ma ancora potentissimo), quelle ‘lacrime nella pioggia’ sono sue. Forse c’è qualcosa di una disperazione che è ancor più luterana che cristiana, ma quel monologo guarda all’Oltre e a Dio. Nella città del futuro svettante, ma angusta e claustrofobica, creato dalla visione di Ridley Scott e dal design di Syd Mead, il replicante, nudo come un Adamo biondo o un angelo caduto - in una pellicola in cui gli echi biblici non si contano - si confronta con la propria mortalità e guarda alle stelle (impietose, in guerra, ma allo stesso modo piene di meraviglia) ‘da cui proviene’: sono i suoi ultimi attimi, ed è tuttavia con serenità che accetta di non potere consegnare ad altri la propria memoria, i propri fardelli e la propria umanità, perennemente messa in discussione (condizione propria e comune all’uomo postmoderno, al filosofo e al mistico): l’umanità messa di fronte al Mistero. Meno di 300 parole che sono un lascito di Spirito scritto nella storia del cinema. Non andranno perdute.