Doppio sogno senza precedenti. Certo, ci sarebbe il capolavoro del drammaturgo Schnitzler, "Doppio sogno" appunto, ma quello è un classico della letteratura, questa, invece, è una storia tutta da scrivere con i piedi. Olanda - Spagna in finale mondiale non esisteva nelle previsioni e neppure nei precedenti. Forse abitava da sempre nei tentacoli del polpo Paul, che ha già espresso il suo verdetto a favore della Spagna.
La storia della Spagna ai campionati del Mondo è un diario di appunti vergati in bella scrittura seguiti da tante pagine bianche, dai quarti di finale in poi. Quella dell'Olanda un libro di viaggio avventuroso e magnifico di cui non abbiamo mai letto la fine: l'ultima pagina, quella della finale, è stata per due volte (1974 e 1978) strappata sul più bello. I capolavori sono tali anche incompiuti, ma resta il rimpianto di sapere che potevano e dovevano finire. Con il gusto amaro dell'incompiutezza dell'Olanda di Cruijff i tifosi arancioni convivono da sempre.
Oggi sostengono una squadra di 21 artigiani e due artisti (Sneijder e Robben). Quando proprio hanno voglia di decori: si aggrappano al ricordo di Gullit, Rijkard e Van Basten, ma è un ricordo cucito dentro i confini d'Europa. Era anche quella un'Olanda bellissima, anche se da campione d'Europa (1988) sfidò il ridicolo vestendo una maglia color salmone con tanto di scaglie: il marketing a volte non ha ritegno può condannarti a passare alla storia fasciato nel capriccio dello stilista peggiore. Le abbiamo viste ancora quelle maglie, vent'anni dopo, indosso ai tifosi orange con tanto di "88" sulla schiena: un po' celebrazione del passato, un po' amuleto in vista del futuro.
I supporters olandesi, quando le distanze lo consentono, migrano in grandi carovane: Berna per la partita d'esordio degli Europei 2008 ne ha visti arrivare decine di migliaia, equipaggiati dalla testa ai piedi: toral orange, senza limiti di età: dagli 8 mesi agli 88 anni. A Torino 2006 per la sfida sul ghiaccio Fabris contro Kramer trasformarono le tribune della pista olimpica torinese in una succursale di piazza Dam: una distesa arancione. Il problema è arrivato sempre dopo, quando si trattava di arrotolare quella dovizia di bandiere e andarsene senza aver avuto terre di conquista dove piantarle. Johannnesburg la fondarono loro, quando c'era bisogno, per proseguire verso le Indie, di una base di rifornimento sulla punta estrema dell'Africa.
Di traverso, stavolta, hanno un altro impero coloniale che sognò di arrivare allo stesso punto prendendo la terra dall'altro verso: andò a sbattere contro l'America, ma quella è un'altra storia. Stavolta l'obiettivo non sono spezie preziose ma una coppa d'oro. E la Spagna ha mostrato che, quando vuole, è bravissima a lavorare di cesello e in filigrana: dicevano che il Barcellana sarebbe stato niente senza Messi, che il Real non fosse più lo stesso nonostante le sue stelle. E invece Ibrahimovic in Sudafrica non è neanche arrivato (la Svezia non si è qualificata), Kakà ha preso l'aereo del ritorno senza tornare davvero sé stesso, Cristiano Ronaldo è pervenuto solo a intermittenza e Messi è volato in Argentina senza neanche un gol da lucidare per consolazione. Barcellona e Real senza di loro con solo un paio di innesti esterni tra i titolari, invece, sono a Soccer city a giocarsela, a dimostrare che il campionato più bello d'Europa sa essere profeta anche in patria, quando la rappresenta.
E il segreto, probabilmente, sono le piccole furie che sgambettano sui campi della "cantera", il vivaio dove crescono le piantine dei campioni in erba, in attesa di diventare grandi e lasciar sbocciare fiori rossi. Sognano tutti di giocare come Messi, poi magari diventeranno Puyol e Casillas e scusate se è poco. Nel 2008 furono campioni d'Europa per la prima volta nella loro storia, ora si affacciano per la prima volta sul mondo, dall'orlo di uno stadio a forma di zucca, con il sogno di oscurarne il colore accidentalmente arancio. Intanto pagine bianche e sparse svolazzano su Johannesburg in attesa accogliere il finale della storia.