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martedì 17 settembre 2024
 
 

La vita blindata dei cristiani d'Egitto

22/06/2011  Le incertezze del nuovo corso politico, la propaganda dei Fratelli Musulmani, la violenza dei salafiti. In Egitto i cristiani copti si preparano a tempi duri.

Nei pressi della cattedrale di San Marco, nel popolare quartiere di Abbassya, la tensione è palpabile nell’aria. L’esercito presidia il grande quadrilatero che comprende, oltre alla cattedrale, la residenza di papa Shenouda III, la sede del Santo Sinodo e il moderno Centro culturale copto, un enorme edificio che si prefigge di custodire l’identità del cristianesimo copto dentro e fuori il Paese.

     Chiuso l’accesso principale, alla cittadella copta, una sorta di piccolo Vaticano cairota, si accede da una via laterale che è stata dotata, dopo le stragi nelle chiese copte di Alessandria e del Cairo, di una batteria di metal detector. Mentre già dalla mattinata intere famiglie sono in fila dietro alle transenne e si sottopongono pazienti ai controlli, gruppi di giovani entrano ed escono dalle cappelle del seminterrato profumate d’incenso. Alcuni monaci, con il tradizionale copricapo a cuffia, salgono frettolosi i gradini dell’edificio che ospita la facoltà teologica. Nel pomeriggio si terrà la tradizionale udienza di Shenouda, l’occasione per raccogliere il popolo cristiano del Cairo ma anche per fare il punto sulla situazione che i copti stanno vivendo nell’Egitto post-rivoluzionario.

     L'irruzione dei salafiti

     «Alcune delle nostre richieste sono state ascoltate, altre sono allo studio. Ci aspettiamo che le nostre istanze vengano prese in esame», spiega abuna Yusuf, un giovane e dinamico sacerdote che si occupa della pastorale universitaria. Ma le parole, seppure accompagnate dal sorriso, non riescono a velare la preoccupazione per una stagione iniziata con grandi speranze e sempre più turbata da sangue e violenze. La verità è che nell’Egitto del dopo-Mubarak, nato sotto la stella della collaborazione e dell’unità tra cristiani e musulmani, la relazione tra le due componenti religiose si va facendo sempre più problematica, anche e soprattutto per l’improvvisa irruzione sulla scena dei salafiti, una fazione dell’islam fondamentalista e violento.

     "In alcuni sobborghi, come quello di Imbaba", spiega Samir, la cui famiglia proviene dall’Alto Egitto, "quasi tutti i cristiani posseggono un’arma, pronti a difendersi o colpire. Ci sono giovani disposti a difendere il proprio quartiere, la propria casa, la propria chiesa, fino alle estreme conseguenze".

     "Noi vogliamo la libertà, vogliamo partecipare alla costruzione dell’Egitto di domani. Ma ci sentiamo insicuri e dobbiamo difenderci", interviene Butros, occhiali da intellettuale e libri sottobraccio: "Prima c’era la polizia di Mubarak. C’era la dittatura, ma i movimenti islamisti erano tenuti a freno. Oggi le strade sono piene di salafiti e noi non possiamo più subire".

     "Prima questi fanatici erano in carcere", si accalora Yvonne, vent’anni e una croce tatuata sul polso: "Ora sono liberi, insieme a delinquenti e tagliagole fuggiti dalle prigioni. Ieri uno di questi cosiddetti musulmani pii mi ha urlato ad una fermata degli autobus: “Dite di essere venti milioni? Noi siamo sessanta: vi uccideremo tutti”". Yvonne, come molti suoi amici universitari, ha partecipato nelle scorse settimane (sfidando le retate dell’esercito) alle proteste dei copti davanti alla sede della televisione di Stato, nell’elegante quartiere di Maspero, un sit-in di 13 giorni nato come forma di protesta dopo la strage di Imbaba, città-satellite del Cairo.

     La strage di San Mena

     Qui alcune centinaia di salafiti hanno assaltato all’inizio di maggio la chiesa di San Mena al cui interno, secondo voci fatte circolare ad arte, sarebbe stata trattenuta a forza una donna convertita dal cristianesimo all’islam. Bilancio: 11 morti e oltre un centinaio di feriti. Tra le richieste dei manifestanti copti a Maspero, la promulgazione di una legge che conceda la possibilità di edificare nuovi luoghi di culto cristiani (cosa oggi difficilissima se non praticamente impossibile), una norma contro la discriminazione dei non musulmani nell’amministrazione pubblica e nei luoghi di lavoro, la riapertura delle chiese chiuse dopo gli incidenti interconfessionali, ma soprattutto l’arresto e un processo rapido per i mandanti delle stragi e delle violenze che dall’inizio di quest’anno hanno duramente colpito le comunità copte dell’Egitto.

     "Si capisce la paura dei cristiani in Egitto", spiega abuna Antony, frate minore del popoloso quartiere del Muski. "Siamo convinti di poter rivestire un ruolo chiave nella nascente democrazia egiziana, ma intanto cresce tra i giovani anche la voglia di andarsene, di fronte all’instabilità politica e alla mancanza di lavoro. C’è molta attesa per le elezioni di settembre, dalle quali dovrà uscire il Parlamento chiamato a scrivere le regole del nuovo Egitto. Ma crescono anche i timori per l’esito di questa consultazione, di fronte alla disorganizzazione dei partiti, che non sono affatto preparati alla tornata elettorale. Nelle moschee e nelle madrasse l’islam più radicale si sta organizzando da tempo… Gli adepti della confraternita dei Fratelli musulmani si stanno preparando da mesi per le legislative. A loro non interessa la presidenza della Repubblica (le cui consultazioni sono previste per l’inizio del 2012, n.d.r); puntano piuttosto ad avere un peso decisivo nel Parlamento. Non è affatto raro vedere gruppi di giovani in caftano e ciabatte battere i quartieri di periferia, dove regna soprattutto la miseria. Girano casa per casa, a qualsiasi ora del giorno e della notte. In queste zone poverissime faranno sicuramente il pieno di voti, spiegando che l’islam è la soluzione di tutti i mali».

     Sarà anche per questi timori che, sempre più di frequente, si leva la richiesta (finora inascoltata) che si arrivi ad un rinvio delle elezioni di settembre. Sul settimanale Al-Ahram, qualche settimana fa, Ibrahim Darwich, una delle massime autorità egiziane in materia di diritto costituzionale, invitava a prendere in considerazione la possibilità di prolungare il periodo di transizione politica di un anno, offrendo così ai movimenti di Piazza Tahrir e alle fazioni moderate il tempo di radicarsi e di selezionare una vera classe dirigente, in grado di contrastare la crescita del fondamentalismo musulmano specie nelle aree rurali e nei quartieri più poveri.

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