Dall’ipotesi del virus creato in laboratorio a Wuhan allo stillicidio quotidiano di notizie su fantomatici farmaci e vaccini efficaci contro il virus, il tema delle fake news durante questa pandemia è cruciale almeno quanto quello del diritto alla privacy dei cittadini visto che il governo pensa di creare un sistema di tracciamento che aiuti le autorità sanitarie a capire sia i nostri movimenti vicino o lontano da casa sia «l'indice di connessione sociale» per ipotizzare la diffusione del contagio e le probabilità che persone di una determinata area s’incontrino con quelle di un’altra. Temi scottanti e in rapida evoluzione che vanno a toccare questioni sensibili e diritti garantiti dalla Costituzione.
Ne abbiamo parlato con il professore Ruben Razzante, docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, fondatore del portale www.dirittodellinformazione.it e che fa parte della task-force contro le fake news sul coronavirus, istituita nei giorni scorsi dal sottosegretario con delega all’Editoria Andrea Martella per contrastare la disinformazione e le false notizie sul Covid-19. Oltre a Razzante, ne fanno parte rappresentanti del ministero della Salute, della Protezione civile e dell'Agcom. Più una serie di esperti a titolo gratuito, fra cui giornalisti, specialisti della comunicazione e del fact-checking come Riccardo Luna (giornalista e scrittore), Francesco Piccinini (direttore di Fanpage), David Puente (responsabile fact-checking per il giornale online Open), Luisa Verdoliva (docente di Elaborazione dei segnali multimediali alla Federico II di Napoli), Giovanni Zagni (direttore di Pagella Politica), Fabiana Zollo (ricercatrice sui flussi informativi online alla Ca' Foscari di Venezia). E il medico Roberta Villa, già collaboratrice del sito anti-bufale in medicina Dottore ma è vero che? dell'Ordine nazionale dei medici. «Il tema delle fake news ai tempi del coronavirus», spiega Razzante, è diventato ancora più delicato e rischioso. Sia l’Unione europea che l’Organizzazione mondiale della sanità stanno interagendo in modo stretto e continuo con i colossi del web al fine di individuare notizie false in materie di salute e di marginalizzarle o rimuoverle dall’ambiente web. Non è semplice ma lo sforzo congiunto dei produttori di contenuti, delle piattaforme di condivisione, delle autorità e degli utenti potrà produrre frutti apprezzabili nel tempo».
Che compiti ha la task-force di cui lei fa parte?
«Combattere la disinformazione in materia di Covid-19, al fine di scongiurare il rischio di comportamenti sbagliati rispetto alle misure di contenimento. Alla pandemia si è sommato il virus dell’infodemia, dovuto alla circolazione incontrollata, soprattutto sui social, di notizie non vagliate e non verificate, che finiscono per orientare in modo sbagliato le condotte dei singoli. Occorre valorizzare i contenuti di qualità e l’informazione professionale certificata e fondata su fonti certe e accreditate».
Come?
«La task-force non vuol essere un Ministero della verità o una sorta di Santa Inquisizione, bensì una struttura di supporto in grado di offrire agli utenti criteri di discernimento nell’individuazione delle fake news. Gli utenti e i colossi del web saranno i nostri interlocutori in questa difficile battaglia. Non ci occuperemo di opinioni perché il libero esercizio del diritto di critica è sacro, bensì di fake news dannose per la salute dei cittadini. Nei prossimi giorni si chiarirà ancora meglio la finalità del nostro lavoro, che peraltro è gratuito. Una sorta di missione al servizio del diritto dei cittadini a una corretta informazione in una fase così delicata per le nostre vite».
Con il Covid-19 dovremo convivere ancora a lungo. È allo studio un sistema di tracciamento tramite un’app in grado di monitorare i nostri spostamenti e contatti, registrare eventuali positività pregresse al virus, etc. Chi dovrà gestire questi dati così sensibili?
«Il ministro dell’Innovazione Paola Pisano ha costituito una task-force di 74 esperti che valuteranno le oltre 300 idee di app anti-contagio partorite da soggetti pubblici e privati. Vedremo che cosa ne verrà fuori. I dati relativi ai nostri spostamenti, in particolare ai luoghi che visitiamo e alle persone che incontriamo, dovranno essere trattati esclusivamente per le finalità dichiarate, cioè per evidenziare le aree a più alta densità di contagio, al fine di arginare il virus e di evitare il blocco totale delle attività sull’intero territorio nazionale. È fondamentale che la gestione dei dati venga affidata a un soggetto pubblico come la Protezione civile, sotto la stretta vigilanza del Garante della privacy».
Una volta finita l’emergenza i nostra dati che fine fanno?
«Dovranno essere distrutti e l’app dovrà essere disinstallata e resa inutilizzabile. Se i soggetti che forniranno l’app dovessero conservare nei loro database i dati degli utenti ci sarebbe sicuramente una delle più pericolose e massive intrusioni nella vita privata dei cittadini e quindi una colossale violazione della privacy degli individui. Ecco perché l’utilizzo dell’app anti-contagio dovrà avvenire sulla base di un atto legislativo, un decreto legge data l’urgenza, ma coinvolgendo fin da subito tutti i gruppi parlamentari. Un semplice atto amministrativo, un’ordinanza della Protezione civile, risulterebbero inopportuni, trattandosi di materia scivolosa e che investe la potenziale compressione di un diritto individuale fondamentale come quello alla privacy».
Come giudica l’esperimento della regione Lombardia che ha messo in campo “AllertaLOM”, un'app della Protezione civile aggiornata per l'emergenza che si basa su un questionario compilato volontariamente dai cittadini e riferito al proprio stato di salute delle ultime due settimane?
«Mi pare una buona iniziativa che potrebbe aiutare a sviluppare modelli previsionali e che si basa su una raccolta dati assolutamente in forma anonima, quindi senza rischi per la privacy».
Sul sistema di tracciamento, in ogni caso, è accettabile che le singole regioni si muovano in ordine sparso? Non è auspicabile una legge dello Stato uguale e valida per tutti?
«Credo che alcune regioni si siano mosse in autonomia, esercitando la loro competenza nell’ambito della gestione sanitaria ordinaria, anche a fronte dell’elevato numero dei contagi e delle enormi difficoltà burocratiche incontrate dal governo nell’affrontare l’emergenza. Un’app anti-contagio dovrebbe certamente essere varata con legge nazionale, superando di fatto le altre applicazioni tecnologiche introdotte da singole regioni come la Lombardia. Ciò al fine di mappare con criteri uniformi il contagio su base nazionale».
L'app della Regione Lombardia, AllertaLOM, serve a tracciare la mappa del rischio del contagio da Coronavirus in Lombardia. Al 1° aprile sono stati compilati 98mila questionari (Ansa)
Nei giorni scorsi ci sono state molte polemiche perché la regione Lombardia, rinnovando l’appello a stare in casa, aveva fatto sapere di aver monitorato le celle telefoniche dei cellulari dei cittadini concludendo che troppe persone, senza giustificato motivo, erano in giro. Un esperimento legale? Che tipo di dati sono stati utilizzati? In questo caso i gestori telefonici possono fornire a un ente pubblico questo genere di dati?
«Si è trattato anche in questo caso di un trattamento avvenuto nel rispetto delle normative sulla privacy, che peraltro autorizzano temporanee sospensioni dei vincoli di riservatezza sui dati sensibili nei casi di allarme conclamato per la salute dei singoli cittadini. Spetta all’ente pubblico, in questo caso alla Regione Lombardia, controllare che la gestione dei nostri dati sensibili da parte dei gestori di telefonia mobile avvenga in maniera conforme alle leggi sulla privacy, senza utilizzi impropri per finalità di profilazione».
In questo sistema di tracciamento si è ipotizzato di coinvolgere Google e Facebook. Non c’è il rischio che queste piattaforme utilizzino in futuro i nostri dati per scopi commerciali e di profilazione che nulla hanno a che vedere con l’emergenza sanitaria?
«Il rischio c’è senz’altro, ma mi pare che al momento non sia tra le ipotesi allo studio del governo quello di un coinvolgimento dei colossi del web nelle operazioni di tracciamento e di applicazione dell’app anti-contagio. Va tuttavia sottolineato come Google, Facebook e altri Ott stiano dimostrando in diverse forme grande impegno, anche finanziario, per contribuire in modo fattivo alla lotta contro il Covid-19».
Il 31 marzo scorso il Garante per la privacy ha richiamato gli operatori dei media a rispettare la dignità dei malati evitando di riportarne dati personali e particolari. Ci sono stati eccessi, secondo lei, in questo campo? E come si concilia questo giusto richiamo del Garante con l’abitudine di molti parenti dei malati e anche vittime di aprire pagine sui social per raccontare le storie dei propri congiunti e talvolta denunciare l’assistenza poco tempestiva nei confronti dei loro congiunti?
«Il tema è delicato e impone una distinzione tra informazione di qualità prodotta professionalmente e diffusa attraverso i media tradizionali o online e contenuti prodotti da utenti social che si sentono liberi di raccontare vicende riguardanti anche la vita privata delle persone. I giornalisti sono vincolati al rispetto del loro Testo unico, che prescrive precisi limiti deontologici, soprattutto in materia di tutela dei soggetti deboli, quindi anche di dignità dei malati. Se un utente pubblica sul proprio profilo social la notizia di aver contratto il coronavirus quella dichiarazione equivale a una sorta di coming-out, una sorta di rinuncia spontanea alla sua privacy, e da quel momento la notizia diventa pubblica e divulgabile. Ma se il dato sanitario riguardante un contagiato viene diffuso per la prima volta da un giornalista senza il consenso dell’interessato, si tratta di una grave violazione deontologica».
I giornalisti, citando la fonte, possono utilizzare questi racconti e denunce postate dagli utenti sui social?
«Può farlo perché, in base all’articolo 9 del Testo unico dei doveri del giornalista, i profili social ufficiali e di trasparente paternità assurgono a tutti gli effetti al rango di fonti giornalistiche primarie. Ma se quel post è stato scritto in violazione delle norme sulla privacy o di quelle sull’onore e la diffamazione, il giornalista si deve astenere dal darne evidenza nei suoi resoconti giornalistici, perché in questo modo si renderebbe amplificatore di una violazione di legge e deontologica e quindi corresponsabile».