Anche la messa ci tiene compagnia in questi giorni di clausura forzata. Anzi potrebbe essere proprio un'occasione per riscoprire l'incontro con il Signore. Lo sa bene papa Francesco che, per la quarta volta, consente la diretta streaming delle messe a Santa Marta. Dopo aver a lungo sostenuto che il video era da evitare per mantenere la spontaneità e l'intimità della celebrazione con i fedeli, in questi giorni Bergoglio ha invece voluto che le sue parole giungessero a tutti come conforto e riflessione.
Questa mattina il suo primo pensiero, nell'introduzione alla celebrazione, è stato per chi deve prendere, in queste ore, decisioni difficili.
«Continuiamo a pregare insieme, in questo momento di pandemia, per gli ammalati, per i familiari, per i genitori con i bambini a casa», ha detto, «ma soprattutto io vorrei chiedervi di pregare per le autorità: loro devono decidere e tante volte decidere su misure che non piacciono al popolo. Ma è per il nostro bene. E tante volte, l’autorità si sente sola, non capita. Preghiamo per i nostri governanti che devono prendere la decisione su queste misure: che si sentano accompagnati dalla preghiera del popolo».
Poi, nell'omelia, ha spiegato il Vangelo di Luca che parla di Lazzaro e del ricco epulone. Anche questa volta ha sottolineato, come aveva fatto in passato, il fatto che il povero ha un nome mentre nella Bibbia non si ha traccia di come si chiamasse il ricco egoista. «Ricco, potente … tanti aggettivi. Questo è quello che fa l’egoismo in noi: fa perdere la nostra identità reale, il nostro nome, e soltanto ci porta a valutare gli aggettivi. La mondanità ci aiuta, in questo. Siamo caduti nella cultura degli aggettivi dove il tuo valore è quello che tu hai, quello che tu puoi … Ma non “come ti chiami?”: hai perso il nome. L’indifferenza porta a questo. Perdere il nome. Soltanto siamo i ricchi, siamo questo, siamo l’altro. Siamo gli aggettivi».
Francesco confessa che ha «pensato a quale fosse il dramma di quest’uomo: il dramma di essere molto, molto informato, ma con il cuore chiuso. Le informazioni di quest’uomo ricco non arrivavano al cuore, non sapeva commuoversi, non si poteva commuovere di fronte al dramma degli altri. Neppure chiamare uno dei ragazzi che servivano a mensa e dire “ma, portagli questo, quell’altro…” … Il dramma dell’informazione che non scende al cuore. Anche, questo succede a noi. Tutti noi sappiamo, perché lo abbiamo sentito al telegiornale o lo abbiamo visto sui giornali, quanti bambini patiscono la fame oggi nel mondo; quanti bambini non hanno le medicine necessarie; quanti bambini non possono andare a scuola. Continenti, con questo dramma: lo sappiamo. Eh, poveretti … e continuiamo. Questa informazione non scende al cuore, e tanti di noi, tanti gruppi di uomini e donne vivono in questo distacco tra quello che pensano, quello che sanno e quello che sentono: è staccato il cuore dalla mente. Sono indifferenti. Come il ricco era indifferente al dolore di Lazzaro. C’è l’abisso dell’indifferenza».
E poi ricorda il suo viaggio a Lampedusa, «quando sono andato la prima volta, mi è venuta questa parola: la globalizzazione dell’indifferenza. Forse noi oggi, qui, a Roma, siamo preoccupati perché “sembra che i negozi siano chiusi, io devo andare a comprare quello, e sembra che non posso fare la passeggiata tutti i giorni, e sembra questo … “: preoccupati per le mie cose. E dimentichiamo i bambini affamati, dimentichiamo quella povera gente che ai confini dei Paesi, cercando la libertà, questi migranti forzati che fuggono dalla fame e dalla guerra e soltanto trovano un muro, un muro fatto di ferro, un muro di filo spinato, ma un muro che non li lascia passare. Sappiamo che esiste questo, ma al cuore non va ... Noi viviamo nell’indifferenza: l’indifferenza è questo dramma di essere bene informato ma non sentire la realtà altrui. Questo è l’abisso: l’abisso dell’indifferenza».