«Voglio dare un senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha» (Vasco Rossi). Difficile, se non impossibile, rinvenire il senso di quanto sta accadendo, anche in relazione alle prescrizioni che ci sono state consegnate per il ritorno alle celebrazioni col popolo, sulle quali si sono scatenate (sul web) le irridenti espressioni di quanti le ritengono fuorvianti. Invece la ricerca del senso non può non accompagnare né quanto accade nella nostra storia individuale e collettiva, né quanto siamo chiamati a vivere, a partire dal 18 maggio, nelle nostre comunità ecclesiali.
E, a tal proposito, mi sembra di poter rilevare un duplice senso nelle prudenti prescrizioni assegnate dai vescovi alle nostre comunità. In primo luogo, si tratta di un senso profondamente “antropologico”. La storia dei riti e dei culti delle diverse religioni, spesso ci pone di fronte a riti lustrali e abluzioni, che precedono e accompagnano il culto. Così norme igieniche si innestano sull’esperienza religiosa, richiedendo la “sanificazione” del corpo o di sue parti, al cospetto del divino e del mistero. Un’espressione, ancora presente nel rito della Messa, connessa alla richiesta del perdono, è il lavabo, che segue l’offertorio e introduce al canone. Il presidente dell’assemblea eucaristica, si lava le mani, rappresentando in questa forma rituale il popolo di Dio, anche se la formula che accompagna il gesto si esprime in prima persona. In antiche forme di religiosità anche il divieto di consumare certi cibi ha insieme una valenza sanitaria e cultuale. Così, mentre nel culto si è alla presenza del divino, al tempo stesso si custodisce la salute delle persone. Può sembrare buffo, ma vi ho scorto un arguto significato, il fatto che spesso quando digito la parola “sanificazione”, il programma la corregge con “santificazione”: essere sani ha a che fare con l’essere santi.
Certamente Gesù di Nazareth, con i suoi gesti e le sue parole ha di gran lungo superato il concetto di purità rituale, così come la chiesa apostolica ha distrutto il tabù dei cibi puri e impuri, tuttavia nel brano che racconta la guarigione di un lebbroso (Mc 1, 40-45 coi paralleli in Mt 8,2-4 e Lc 5,12-16), il verbo greco che viene utilizzato significa “purificare” [katharizein]. Il lebbroso chiede non di essere guarito, ma “purificato” e Gesù dice: “Lo voglio: sii purificato!”. Si tratta al tempo stesso di sanificare e santificare e quindi guarire da una delle più terribili e immonde malattie infettive che l’umanità ha conosciuto e ancora oggi sperimenta.
Ma vi è un senso teologico più profondo in quanto ci viene richiesto: entreremo in chiesa con i segni della passione che stiamo vivendo, mascherine, guanti, prodotti igienizzanti. Mentre ci rechiamo a celebrare la passione, morte e risurrezione del Signore, non possiamo lasciare a casa la nostra passione e i suoi segni concreti. Così la liturgia non è avulsa dalla vita di ogni giorno e ci presentiamo al Signore con tutti i nostri limiti e le nostre fragilità, ma anche con tutti i tentativi che mettiamo in atto per proteggere noi stessi dalla contaminazione, ma anche per proteggere gli altri e la loro salute fisica, che è un bene prezioso. La chiesa così non è diversa o distante dalla città, anzi è presente, persino nelle sue forme cultuali, nel tessuto sociale, attraverso le attenzioni che il momento storico richiede a tutela dell’umano.
Qualcuno avrebbe preteso che si attendesse il ritorno alla normalità, per poter celebrare i sacramenti e in particolare l’eucaristia nel modo consueto. Ma questo atteggiamento di “purità rituale” di fatto non tiene conto della necessità che ciascuno di noi avverte di rendere presente la grazia nella situazione in cui si trova a vivere ogni giorno, nei propri rapporti umani, nel proprio corpo, che chiede di essere protetto e sanificato, ma anche santificato attraverso il sacramento, in particolare l’eucaristia.