La mappa mondiale della corruzione: in rosso i Paesi più colpiti.
«Da vent’anni avvocato senza esserlo, scoperto da Gdf di Venezia». «Due agenti arrestati per corruzione nel milanese, il sospetto è che ottenessero vantaggi per agevolare pratiche di immigrazioni». «Un ex docente di architettura della Sapienza arrestato con l’accusa di aver venduto esami per 2000 euro». «Caserta: appalto a ditta clan, indagato anche fratello di un Eurodeputato».
Arrivano così nelle agenzie, una dietro l’altra, cronache da 24 ore qualunque. Arrivano nel giorno in cui si scopre a Roma l’intreccio perverso tra amministrazione, mafia, politica e criminalità da strada. Arrivano nel giorno in cui prendiamo atto che l’Italia è il fanalino di coda d’Europa in fatto di corruzione percepita.
Lo dice il rapporto Transparency, che valuta la trasparenza dei Paesi del mondo secondo 12 parametri calcolati da 11 diverse istituzioni internazionali. Grecia e Bulgaria, un anno fa dietro di noi in fatto di corruzione percepita, ci raggiungono al 69° posto, dove si collocano anche Croazia e Romania (e il Brasile). Adesso dietro a pararle le spalle non resta nessuno: la maglia nera d’Europa è l’Italia. Nel mondo fanno meglio Sud Africa e Kuwait (67esima posizione). Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda lassù in testa alla classifica sono lontanissime. E pure la Germania (12° posto), il Regno Unito (14°), gli Stati Uniti (17°), la Francia al 26°.
Segno che gli sforzi, culminati nella presenza di Raffaele Cantone a capo dell’Autorità anticorruzione e nel suo meritorio lavoro, non sono bastati a dissipare di un soffio la nostra opacità. Stando alle notizie così come arrivano, non è difficile capire il perché. Quando annunciò l’Authority nascente il premier contava in un balzo in avanti di 10 posizioni. Si sbagliava, non ci sono cascati. Raffaele Cantone si impegna molto, sappiamo che senza i suoi sforzi di commissariamenti preventivi e senza le indagini, efficaci e veloci, che hanno portato ai patteggiamenti attorno a Expo e Mose, staremmo anche peggio, ma evidentemente non basta.
Non basta perché l’opinione pubblica non percepisce abbastanza il problema o forse perché, quando dagli alti livelli della casta, si scende ai bassi dell’uomo qualunque si capisce che un tantino nel torbido sguazza volentieri pure lui, quantomeno cade in tentazione: banalmente se un professore (il processo lo verificherà) si vende esami è perché ci sono studenti disposti a comprarseli.
Non basta perché a troppi cogliere l’occasione che fa l’uomo ladro non sembra così grave. Non basta perché non ci sono filtri a monte del Codice penale e della magistratura ordinaria. È sempre contro il loro argine che la valanga va a sbattere, mai che qualcosa la fermi prima quando ancora è una palla di neve, in tempo a impedire che non travolga tutto. Ha ragione Piercamillo Davigo, l’ha ripetuto ieri sera a Di martedì: “Non è possibile demandare ai processi la selezione etica della classe dirigente. La magistratura può occuparsi solo di questioni penali, ma esistono a monte le questioni di inopportunità, per le quali all’estero ci si dimette. Qui restano al loro posto anche quando arrivano i carabinieri a prenderli, a volte anche dopo”.
D’altro canto negli ultimi vent’anni, quando dopo Tangentopoli sarebbe stato scontato, non si è lavorato a scrivere norme per rendere i fenomeni corruttivi meno convenienti, semmai si è resa loro più agevole la via: ci sentiamo dire da anni che il falso in bilancio di fatto depenalizzato, la prescrizione dimezzata dalla legge ex Cirielli, la concussione spacchettata, l’autoriciclaggio che non si punisce sono zavorre alla nostra legalità e indirettamente alla nostra economia.
Se ne parla, di tanto in tanto si promettono riforme della giustizia più o meno epocali, ma poi la montagna si arena in Parlamento, stoppata dai troppi che non hanno alcuna voglia di un serio contrasto: se va bene partorisce un topolino che si occupa di minuzie. Se va male si traduce in qualche legge maldestra che rischia di peggiorare la situazione.