di Massimiliano Padula
Sempre meno generalismo e sempre più (rappresentazione della) realtà. Potrebbe essere il motto che spiega la trasformazione della televisione negli ultimi 20 anni. All’inizio fu il Grande Fratello, seguito dalle “Isole” abitate da naufraghi più o meno famosi e da tutto lo stuolo dei reality da prima serata indirizzati al pubblico di massa. Con il passare del tempo si insinuano nel mercato televisivo canali tematici con spettatori sempre più segmentati, con risorse economiche limitate e, dunque, impossibilitati a concorrere con le corazzate pubbliche e private (Rai e Mediaset in primis). Conseguenza della frammentazione è stata la scelta dei contenuti, sbilanciati su narrazioni di nicchia, su contesti sociali specifici, su personaggi presi dalla gente comune. Ristoranti, hotel, case private, collegi, caserme, da sempre luoghi ristretti oppure inaccessibili a occhi esterni (e indiscreti), hanno aperto le porte per mettere in scena varia umanità alla ricerca (illusoria) di un po’di celebrità. In certi casi i risultati sono stati godibili, altre volte hanno violato il comune senso del buon gusto.
Da qualche tempo anche uno dei luoghi tradizionalmente inviolabili alla spettacolarizzazione ha aperto i suoi portoni. È il caso di “Ti spedisco in convento”, il docu-reality prodotto dalla Fremantle che, dopo esser stato trasmesso a pagamento su Discovery+, sbarca dal 4 aprile in chiaro su Real Time (canale 31 del digitale terrestre) per quattro prime serate.
Ispirata al format inglese Bad Habits, Holy Orders, la docu-serie è ambientata in una comunità religiosa femminile, il Convento la Culla di Sorrento, e vede come protagoniste cinque suore (Oblate del Bambino Gesù) e altrettante giovani laiche presentate come donne trasgressive e mondane. Il plot narrativo potrebbe rimandare all’immaginario collettivo tipico di un certo B-movie fatto di doppi sensi e allusioni sessuali, eppure, a uno sguardo attento, l’esperimento televisivo ha diversi meriti. Anzitutto quello di aver rotto un cliché: le religiose non sono fuori dal mondo, anzi incarnano una cultura dell’accoglienza che ha reso, tra l’altro, la loro casa uno dei luoghi di vacanza più originali della costiera sorrentina.
Per questo motivo, l’incontro tra i due “universi” non sarà sconvolgente, ma si delineerà in una reciprocità empatica che, fin dal primo momento, libera il racconto da eccessi, conflitti e sensazionalismi. L’autorevolezza pacifica delle suore si afferma man mano nelle personalità stereotipate delle cinque donne inizialmente caratterizzate da atteggiamenti superficiali ed effimeri, da abiti vistosi e provocanti, da turpiloquio e da esibizione massiccia del sé attraverso i social network. I
nfatti, le cinque ad un certo punto decideranno di aprirsi lasciando il posto a una personale “redenzione” fatta di semplicità, di accettazione di regole, preghiere e corrispondenza con ciò che appariva distante anni luce dalla vita che avevano scelto. Come tutte le messe in scena anche “Ti spedisco in convento” segue un copione strutturato che, tuttavia, risulta verosimile e a tratti naturalmente autentico. Lo spiega bene suor Daniela, la madre generale della Congregazione quando, rivolgendosi alle ragazze, afferma che la conoscenza tra apparenti differenze diventa una “grande opportunità: quella di esprimere il nostro essere donne e madri”. È questa la chiave di volta di tutto il programma: scegliere di essere prossimi e non opposti, di provocare e non di combattere, di arricchirsi e non di chiudersi nel proprio guscio. In una sola espressione: di essere donne che non si giudicano ed etichettano, ma scelgono di guardarsi negli occhi e percorrere un cammino comune di umanità.