Voltiamoci indietro, torniamo con la nostra mente e il nostro sguardo alla vita prima della pandemia. E domandiamoci, anche solo per un attimo, chi eravamo, quali erano i nostri pensieri, il nostro sguardo sul mondo e sulle cose, il nostro modo di considerare gli altri, i nostri vicini, o le persone lontane da noi, quale peso davamo alle relazioni sociali, cosa contava davvero nella nostra vita. Ora, la distanza dal tempo prima del Coronavirus ci sembra un abisso. L’epidemia ha creato una frattura profonda. Eppure, erano soltanto poco più di due mesi fa. L’altroieri. Sono le domande e gli spunit di riflessione che ispirano e guidano la nuova serie di Che ci faccio qui, il programma di genere docu-reality - sulla scia della serie I dieci comandamenti - del giornalista Domenico Iannacone, che riparte domenica 10 maggio alle 20,30 su Raitre. Storie di emarginazione e di riscatto, di povertà e di solidarietà, persone che hanno cambiato la loro vita, visionari che lottano per un mondo più giusto per tutti. «Abbiamo girato questa nuova serie tra gennaio e febbraio, con l’idea di raccontare i diritti di tutti gli esseri umani», spiega Iannacone, 58 anni.
Si parte con due puntate sulla condizione dei braccianti agricoli nella piana di Rosarno, in Calabria. «Adesso è un tema attualissimo, perché si parla della crisi dell’agricoltura e della regolarizzaione di 600mila braccianti immigrati. Ma prima della pandemia come guardavamo alla situazione dei lavoratori migranti delle campagne?», osserva il giornalista. Nel racconto di Rosarno Iannacone si fa accompagnare da Bartolo Mercuri, un piccolo commerciante di mobili calabrese che ha vissuto il carcere per quasi due anni e mezzo ingiustamente e ha poi deciso di dedicare la sua vita all’aiuto dei più deboli, ai bisogni collettivi. Nella terza puntata si passa a una storia sul diritto all’esistenza degli animali: «Vicino a Roma ho trovato la storia di un allevatore che pensava di amare gli animali. Un giorno ha visto un carico di ovini destinati alla macellazione. La sera nell’allevamento ha sentito il pianto disperato delle madri. E' rimasto sconvolto, il giorno dopo è andato a ricomprare quel carico e l’ha salvato. Da allora ha cambiato vita: ha creato un luogo nel quale accoglie e cura animali che erano destinati al macello. Ha salvato gli animali, ma anche e soprattutto sé stesso».
Si continua con due puntate sul Corviale, un complesso di edilizia popolare nella periferia di Roma, un serpentone di cemento nel quale vivono quasi cinquemila persone. «In questo luogo di forte disagio sociale, un ex calciatore ha creato il “Campo dei miracoli”: un nuovo modello di integrazione attraverso il calcio sociale. Un’esperienza sportiva che si basa sulla riscrittura di regole nuove, antitetiche a quelle normali, consolidate: ad esempio, le squadre sono composte da uomini, donne bambini, giovani e anziani, persone normodotate e disabili; non c’è un arbitro; il giocatore più forte può segnare solo tre gol a partita. Una storia incredibile, diventata anche oggetto di uno studio all’estero. Ho poi narrato la storia di un’azienda di lavatrici a Torino che ad un certo punto ha deciso di dedicare una parte della sua attività al recupero e alla rigenerazione degli elettrodomestici usati e buttati. Un modo per riflettere sull’importanza che diamo alle cose: salvando gli oggetti salviamo insieme l’ambiente e noi stessi».
In ogni puntata di Che ci faccio qui - così come in I dieci comandamenti - Iannacone parte dalla cronaca per andare oltre: passare dall’informazione alla riflessione, dalla narrazione giornalistica all’introspezione. «Il racconto televisivo in questi anni ha perso di spessore, si è accontentata di proporre soltanto elementi superficiali della società e della vita della gente, per cui alla fine tutte le storie sono diventate simili». Lui, invece, per narrare ha bisogno di sentire, vivere nel profondo ciò che racconta, farlo suo. «In me non c’è distanza tra il giornalista e l’uomo. Le persone che incontro potrebbero essere mio padre, mio figlio, mia sorella. E allora elimino le distanze, creo un rapporto empatico con l’intervistato aprendo canali di comunicazione nuovi, inaspettati. Quelle relazioni, quegli episodi diventano miei e anche il dolore che emerge diventa un carico che mi porto sulle spalle. Le storie si sedimentano dentro di me, mi restano addosso, diventano pezzi della mia vita».
Le puntate di questa serie avrebbero dovuto essere otto. «Quando è scoppiata la pandemia e c’è stato il blocco ne avevamo girate sei, quelle che andranno in onda». Ma non è detto che il programma si fermi lì. Iannacone ha in mente una settima puntata, dedicata al post-Covid. «Ho raccontato ciò che c’era subito prima dell’epidemia. Mi piacerebbe chiudere il cerchio con il ritorno alla realtà».