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lunedì 07 ottobre 2024
 
Calcio e delusioni
 

Cosa possiamo imparare dalla sconfitta dell'Italia

16/11/2017  Tanti i bambini e i ragazzi in lacrime per l'Italia che non parteciperà ai Mondiali del 2018. Ma da questa vicenda, secondo il nostro esperto Alberto Pellai, se ne può trarre qualche insegnamento perché come si impara a vincere è importante anche imparare a perdere. La sconfitta appartiene alla vita e insegna a stare con i piedi per terra.

Non se l’aspettava nessuno. Però è successo. La nazionale di calcio è fuori dai Mondiali. Non succedeva dal 1958. Perciò, l’unica volta che è successo qualcosa di simile, io non ero ancora nato. I tifosi (ma non solo loro, perché anche molta gente comune ha reso questo evento l’argomento di punta delle conversazioni di ieri) erano sgomenti. Ieri mattina ascoltavo una rassegna stampa che riportava i titoli dei giornali internazionali che parlavano di un’ Italia “sotto shock”.

E’ vero: non siamo stati mai abituati a finire in fondo alla classifica mondiale delle squadre di calcio. E quindi quello che è successo alla nazionale, e di rimando a tutti i tifosi, ci trova profondamente impreparati. In fondo siamo tutti – chi più, chi meno – azzurri nel cuore. E vedere e seguire i Mondiali di calcio rappresenta una sorta di rito al quale gran parte delle famiglie difficilmente rinuncia. Alcuni, addirittura, ci cuciono intorno anche i programmi delle proprie ferie estive. Si può andare al mare prima o dopo i Mondiali, mai durante: per alcune famiglie questa è una legge che, ogni quattro anni, diviene fondamentale rispettare.

I miei figli e alcuni loro amici, tutti grandi tifosi, la sera della debacle hanno usato parole grosse per commentare questa sconfitta. «E’ una vera sciagura», «E’ una cosa troppo grossa e non ci riesco ancora a credere». Li sentivo parlare e si sono anche detti: «Che tragedia». Sembra anche che, lì dove erano  a vedere la partita, qualcuno sia stato visto piangere lacrime vere. Un evento più unico che raro, considerato che i maschi di solito non piangono mai.

Ma da psicoterapeuta, più che da padre, devo dire che vedere raccontare questo evento con le stesse parole che si usano per descrivere le grandi tragedie dell’umanità mi è sembrato francamente fuori luogo. E anche tutto lo sgomento e il disorientamento generato da una sconfitta calcistica alla fine mi paiono un tantino esagerati.

Non posso cambiare la cultura del calcio che nel nostro paese è “tanta roba” per dirla con una locuzione cara ai giovanissimi. Non posso dire a chi vive di calcio e per il calcio di rimettere tutto in prospettiva: una sconfitta, così sonora, per quanto dura e inaspettata non può propriamente definirsi una tragedia. E in tutta sincerità, io non sono  in stato di shock. Un po’ incredulo, quello sì. Ma in stato di shock: ecco, questo proprio no.

Le parole hanno un senso: costruiscono la realtà. E mi rendo conto che a volte si commenta una sconfitta della nazionale con le stesse parole e categorie con cui si commenta una vera e propria tragedia. In fin dei conti i termini utilizzati per la sconfitta azzurra sono gli stessi con cui abbiamo commentato eventi di ben altra portata, impatto e conseguenze: il terremoto, per esempio. O le stragi del terrorismo.

Imparare a selezionare le parole per ciò che significano ha davvero importanza. Soprattutto per chi sta crescendo. Perché le parole ci aiutano a stare nel “principio di realtà”. A trattare le cose per quello che sono. Farò leggere a mio figlio questo articolo: è importante che senta che non può parlare di una sconfitta calcistica e soffrirne di conseguenza con la stessa intensità che si sperimenta di fronte a ben altre cose della vita. E’ anche importante che continui a coltivare la sua passione per il calcio senza trasformarla in un’ossessione. E infine, è importante che così come si impara a vincere, si impari anche a perdere.

La sconfitta appartiene alla vita. E’ l’altro lato della medaglia. E può insegnare moltissimo. Per esempio: a non dichiarare vittoria certa, prima di essersi messi alla prova con la sfida che ci attende. Questo errore l’ha fatto il CT della Nazionale. Ripetutamente. La sconfitta insegna anche a stare con i piedi per terra, a non ritenersi persone chiamate a compiti superiori quando il proprio mestiere si chiama “gioco del calcio”. E’ un gioco che si fa da professionisti, ma che richiede senso della misura, sacrificio, spirito di squadra. E anche molta umiltà. Una cosa spesso difficile da trovare nel mondo dei grandissimi campioni, in cui stipendi astronomici autorizzano a pensare a se stessi come dei super-eroi.

Quando invece si è – più probabilmente – dei superprivilegiati. Il che non è né una colpa, né un reato. Ma ci piacerebbe che tra i calciatori e in  tutto il mondo che ruota intorno a loro,  ci fosse più senso della misura. A partire dal giro di denaro che ruota intorno a questo sport, a questi campioni e anche a questa nazionale. Che se non sbaglio ha tra i propri sponsor anche una multinazionale delle scommesse. Ovvero del gioco d’azzardo: cosa che per me è impensabile e su cui vorrei che anche mio figlio riflettesse. 

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