Il concilio Vaticano
II ha sicuramente
inciso sulla prassi
della vita della
coppia. Prendendo
spunto da uno
dei suoi documenti
più significativi,
la Costituzione
Gaudium et Spes,
si ricostruisce
il clima che regnava
in passato,
lo si confronta
con le novità
e con l’epoca attuale.
Quando si voglia – sia pure in modo empirico
– testare quanto un evento (nel nostro caso:
teologico e culturale come il concilio Vaticano
Secondo) abbia inciso nella Weltanschauung e nella
prassi di una realtà vivente e in evoluzione (nel nostro
caso: la vita della coppia cristiana) è necessario
ricorrere a tre passaggi: a)come stavano le cose in
contemporaneità dell’evento e quindi quanto era
possibile una ricezione corretta; b) in che cosa consista
la novità/discontinuità dell’evento; c) quali nuove
prassi siano eventualmente innescate da esso.
Ci limitiamo al “come stavano le cose” in ordine al
rapporto di coppia e alla pratica sessuale coniugale.
Chi ha la fortuna di un po’ di memoria storica come
gli scriventi (all’epoca del Concilio in età adolescenziale)
sa bene come veniva concepito nella prassi
l’amore coniugale: non per niente si parlava di “dovere
coniugale”, a carico (esclusivamente) della donna
cui era richiesto per dovere di sottostare ai diritti/
esigenze del marito! Naturalmente, tale dovere
non riguardava solo il sesso, ma lo stesso clima familiare:
la donna – angelo del focolare – doveva provvedere
a tenere la casa, e l’eventuale collaborazione
del marito era sentita – sia dall’uomo sia dalla donna!
– come un grazioso favore donato a lei (“ti guardo
i bambini”, “ti apparecchio la tavola” eccetera), di
cui lei doveva essere grata, perché casa e bambini erano
affar suo. Supponiamo che ai trentenni di oggi
(neogenitori che collaborano alla conduzione della
famiglia), simile descrizione suoni... antidiluviana e
quasi non credibile; eppure provino a spostarsi indietro,
se non ai loro genitori (già nell’area del ’68) ai
loro nonni, poiché è a partire da questo
spessore culturale che gusteremo
la novità del Concilio e la trasformazione
che esso potenzialmente introduce
nella prassi della famiglia. Un ricordo
personale di uno di noi: ero ragazzina
quando nella grande casa multigenerazionale
dei miei nonni proprietari
terrieri c’era ben divisa la tavola per
gli uomini nella sala (io vi ero provvisoriamente
ammessa in quanto ospite) e
la tavola delle donne in cucina, spesso
non sedute, perché – dopo aver cucinato
– dovevano servire gli uomini!
In questa atmosfera di non-pari dignità
nella prassi, il modo in cui era vissuto
il “dovere coniugale” era solo un
epifenomeno, congruo al modo di
concepire la vita. «Io non ho desiderio
», diceva una donna e questa era la
garanzia che non fosse una “poco di
buono”; il piacere della donna, cioè,
era un accessorio che i mariti non erano
istruiti a coltivare; e così era in qualche
modo socialmente approvata la
scissione: la moglie “casta” nel letto e
la prostituta “di fuoco” quasi fuori dalla
porta di casa. L’indimenticabile scena
del film Il gattopardo in cui il principe
di Salina fa l’amore casto con una
moglie rigida che si fa il segno di croce
e poi bussa alla porta della sua
“mantenuta”, non è solo da collocarsi
nell’800 ma può essere spostata proprio
nel clima culturale degli anni ’50
del secolo scorso. Altrimenti sarebbe
inconcepibile la domanda frequente
(anche se espressa in modi molto indiretti):
«Ho fatto l’amore con mio marito
(cioè: ho avuto un rapporto – ho
accettato lo sfogo di mio marito eccetera)
ieri sera; posso fare la Comunione
stamattina?». Per sorridere abbiamo
recentemente sentito con le nostre
orecchie l’affermazione (rovesciata?)
di oggi che suona «Gli ho detto di
no, mi devo confessare perché ho
commesso peccato a sottrarmi?».
Ebbene, questa storia del “confessarsi”
nella sua più o meno esplicita svalutazione
del sesso mette in luce la presenza
di un altro co-autore di questa distorsione:
il prete. L’impreparazione
del parroco a capire la grandezza
dell’atto coniugale che non aveva bisogno
di assoluzioni era enorme, incredibile.
Anche qui, un ricordo personale:
durante l’omelia, ne ho ascoltato uno
apostrofare dal pulpito: «Mariuccia, tu
hai solo due figli, non è giusto!»: questo
avveniva esattamente nel ’67, in un
paesino della Brianza dove eravamo
andati ad abitare come giovani sposi.
Da dove veniva questa impreparazione
così congrua alla prassi culturale e
sociale imperante? Lo diciamo con un
tantino di arroganza – ce ne rendiamo
conto – ma non ci viene da dirlo altrimenti:
non solo dall’impreparazione
degli studi in seminario (dove non si
parlava di atti coniugali «onorabili e
degni» come dirà il Concilio, ma solo
di peccati contro il sesto comandamento),
ma dalla convinzione che la scelta
del celibato fosse una scelta “superiore”
cui erano chiamati i pochi (cioè gli
eletti), mentre la massa doveva seguire
“la via larga”, cioè il matrimonio, notoriamente
scelta di tipo B. In termini
calcistici: uno sposato mai avrebbe potuto
essere ammesso in serie A! Forse
le orecchie del prete che si sentivano
chiedere il permesso di accostarsi
all’Eucaristia dopo un rapporto coniugale,
erano del tutto adeguate a recepire
simile domanda. Per anticipare,
ascoltiamo Tonino Bello, questo profetico
“figlio del Concilio” che, a proposito
non solo della pari dignità del sacramento
dell’Ordine e del sacramento
del Matrimonio ma del loro reciproco
e indispensabile connettersi, in uno
scritto folgorante che porta il titolo
“Verginità e Servizio” scriveva: «I vergini
dicono ai coniugi: “C’è un al di là
del vostro matrimonio, ed è il Regno
di Dio, cioè la consumazione di tutta la
realtà cosmica in Cristo”. Gli sposi soggiungono:
“Anche noi rendiamo un
servizio profetico. Noi siamo segno del matrimonio tra Cristo e l’umanità. Noi
indichiamo a voi che il matrimonio
con Cristo è il vostro stadio finale”. E i
vergini rispondono: “È vero, voi siete
un segno splendido per noi; e vi ringraziamo
per il vostro servizio. Noi, però,
siamo segno che il vostro è solo un segno.
Voi indicate il già, noi indichiamo
il non ancora del Regno” (...) Sicché
coniugalità e verginità appaiono
come i due versanti del Tabor. Chi raggiunge
la vetta, seguendo l’uno o l’altro
dei due tornanti, entra “nel riposo
di Dio e nel Sabato del Signore”»
Che dire ancora del clima culturale
e religioso in cui si innesta questo evento
dello Spirito che è il Concilio? Oltre
alla svalutazione della sessualità e del
rapporto di coppia c’era una chiusura,
anche sociale, del sistema famiglia in
un’eticità che appare non solo autosufficiente,
ma anche autogiustificantesi:
è la
famiglia “cappa di
piombo” denunciata
da Paul Bruckner, è la
famiglia “tomba
dell’amore” secondo
un luogo comune,
ben sostenuta da una
società rigida e, ancora
per poco, autoritaria.
Con tutte le dovute
eccezioni, occorre
dirlo: là dove c’è umanità
autentica e santità,
gli steccati e i condizionamenti
culturali si superano e tante
buone famiglie cristiane non ne risentono,
ieri come oggi!
Qual è dunque la novità del Concilio?
Che cosa dire della vita di coppia?
Dopo il nostro parziale excursus sul clima
in cui si innesta, l’evento Concilio
appare in tutta la sua sconvolgente discontinuità,
in tutta la sua apertura
profetica e in tutta la potenzialità del
linguaggio nuovo in cui inserire le
eterne Parole della vita.
A proposito del linguaggio, diciamo
subito che siamo oggi colpiti dalla
sua linearità e semplicità, un linguaggio
che può essere percepito perfino
come “dimesso” (per chi ha una qualche
dimestichezza della solennità –
leggi: pomposità – di certi documenti
in... ecclesialese). Eppure questo linguaggio
così diretto suona “dover essere”,
deontologia, enunciazioni di principio
(si spiega così anche l’uso del futuro
in certi punti). Per esempio, il n.
48 della Gaudium et Spes conclude con
le seguenti espressioni il suo discorso:
«La famiglia cristiana che nasce dal
matrimonio, come immagine e partecipazione
del patto d’amore del Cristo
e della Chiesa, renderà manifesta
a tutti la viva presenza del Salvatore
nel mondo e la genuina
natura della
Chiesa, sia con
l’amore, la fecondità
generosa, l’unità e la
fedeltà degli sposi
sia con l’amorevole
cooperazione di tutti
i suoi membri».
E ci dobbiamo rassegnare,
perché
quando delinea il
profilo etico di una
realtà, nessuno può
pretendere di parlare
delle cose come
sono di fatto (e men che meno rilevare
le cose come stanno a criterio di verità!)
ma deve porre il punto alto, verso
cui la realtà può/deve dirigersi.
Non dimentichiamo che la costituzione
Gaudium et Spes, promulgata il 7 dicembre
1965, è una Costituzione pastorale,
che si dà il compito di offrire
le linee guida dell’azione. Tentiamo
ora di enucleare alcuni passaggi dai
punti 47 al 52 della Gaudium et Spes,
con i quali ci proponiamo di saggiare
la prassi della vita di coppia oggi.
«L’intima comunità di vita e di amore
coniugale è stabilita dal patto coniugale,
vale a dire dall’irrevocabile consenso
personale», ancora: «è Dio stesso
l’autore del matrimonio». E così
«l’uomo e la donna... prestandosi un
mutuo aiuto e servizio con l’intima
unione delle persone e delle attività...
tendono a raggiungere sempre più la
propria perfezione e la mutua santificazione
» (48, passim). «Un tale amore,
unendo insieme valori umani e divini,
conduce gli sposi al libero e mutuo dono
di sé stessi..., provato da sentimenti
e gesti di tenerezza... è ben superiore,
perciò, alla pura attrattiva erotica che,
egoisticamente coltivata, presto e miseramente
svanisce... l’unità del matrimonio
confermata dal Signore appare
in maniera lampante anche dalla uguale
dignità personale sia dell’uomo che
della donna» (49, passim).
Fermiamoci qui: le sottolineature
che abbiamo fatto già ci offrono una radicale
contestazione della prassi in cui
è accaduto oggi il rapporto d’amore.
Esso appare “voluto dall’alto”, non coniugabile
con una prassi d’amore precaria,
finché il sentimento dura: ciò
che contesta ogni convivenza, ogni
“prova” d’amore, è – nel dettato conciliare
– «irrevocabile consenso personale
»; a noi pare vi sia qui la conferma
non solo della dignità della libertà della
persona, ma della sua capacità di dire
“sì” per sempre: come a dire, l’indissolubilità
non viene calata dall’alto, come
dovere estrinseco che delimita la
“cappa di piombo”, ma da una scelta
che fonda “l’intima comunità”. Di nuovo:
tu piccolo essere umano, sia nel volto
maschile sia in quello femminile,
puoi volerlo, a partire dalla tua decisione
interiore, a partire dal tuo fazzoletto
di libertà. Poi, non sei lasciato solo,
riceverai tutti i doni e la grazia che ti costituiscono
come marito/moglie: ma il
nucleo è lì, il tuo irrevocabile consenso
che nessuno può dare al posto tuo.
Qui sono spazzate via sia le “magiche”
convinzioni (tradizionali?) di un
coniuge scelto da Dio per me, “destinato”
a me, sia le confusioni (postmoderne)
tra la labilità del sentimento e le
pretese prove “se vai bene per me”,
cioè il carico impossibile gettato sulle
tue spalle che tu sia a mia misura, che
tu mi soddisfi, che tu sia il “prodotto”
giusto per me. No, sono io che ti dico
«sto con te per sempre» senza “se” e
senza “ma”. L’irrevocabile consenso
quindi apre orizzonti che contestano
non solo le attese post-romantiche, ma
anche le “prove” che vorrebbero giustificare
un amore precario.
Prove che sono sempre più congrue
all’instabilità dei legami che la nostra
società persegue a proprio uso e consumo;
di nuovo nei termini di P.Bruckner:
«Siamo passati da una famiglia
cappa di piombo, a una famiglia tenda
bucata»; aggiungiamo: dove passano
tutte le correnti dell’instabilità e quelle
forzature che sembravano brandite come
bandiere di libertà. È solo un esempio:
una giovane donna convive con
un separato, il quale ha due figli. Al settimo
anno di tale convivenza – c’è già
una bimba della nuova unione – lei decide
di lasciare lui che la accusa di tutte
le gravi devianze che il figlio quattordicenne
sta mettendo in atto. Relazioni
bucate. Oppure forzate, oggi più che
mai: «Non posso separarmi», dice un
padre che è violento con il figlio di sei
anni, «perché sono un semplice operaio
e con 800 euro al mese non posso
pagarmi un affitto. Sto lì, anche se non
sopporto più né mio figlio, né sua madre
». Terribili tende bucate dove non
si trova più un luogo sicuro. In questo
clima il rapporto sessuale è inteso come
pura e semplice «attrattiva erotica
egoisticamente coltivata» che l’altro
mi dovrebbe garantire (che cosa ci posso
fare se io non lo/la amo più?).
Che cosa è successo in questi cinquant’anni,
a partire da un clima culturale in cui si doveva “giustificare” (rendere
buono) un rapporto sessuale tra
coniugi alla pretesa attuale che l’altro
esista per soddisfarmi? Lo dice con fulminea
chiarezza una psicanalista laica,
non certo sospetta di clericalismo, Simona
Argentieri: «Più di mezzo secolo
fa, ne Il disagio della civiltà, Freud scriveva
che la convivenza civile imponeva
dei “sacrifici pulsionali” che determinavano
lo “scontento” dell’uomo moderno.
Oggi, a dire il vero, nessuno
più si fa carico di limitare gli impulsi
sessuali e aggressivi dei singoli, ma non
per questo stiamo meglio; anzi, tutti
sembrano rabbiosi, delusi, carichi di
rancore e perpetuamente scontenti»
Ci sono anche altre lenti buone con
cui il Concilio vede la vita coniugale; alcune
– pur nella semplice severità del
linguaggio – sembrano un canto, un
cenno di danza, un’apertura di volo come
eco del Cantico dei Cantici: il testo
parla di «amicizia coniugale», di «amore
provato da sentimenti e gesti di tenerezza
», «di atti propri del matrimonio...
onorabili e degni... arricchiscono
vicendevolmente in gioiosa gratitudine
gli sposi stessi» (49, passim). Ancora:
perché la famiglia con la presenza
dei figli sia «scuola di umanità più
completa e più ricca... è necessaria
una amorevole apertura vicendevole
di animo tra i coniugi e la consultazione
reciproca» (52, passim). Amicizia
coniugale, gioiosa gratitudine e consultazione
reciproca sono categorie ancora
in gran parte da esplorare (anche
nella letteratura scientifica che tratta
del rapporto d’amore) e segnali di una
concezione “alta” e benefica della famiglia;
ci stiamo chiedendo se, nei corsi
per fidanzati, queste categorie siano visitate,
perché conferirebbero vero spessore
umano alla vita di coppia! Alcune
ricerche laiche sui «matrimoni che durano
nel tempo» (così ha riassunto,
per esempio, Anna Oliverio Ferraris in
un articolo divulgativo3) trovano che il
primo fattore di questo “durare nel
tempo” sia proprio l’amicizia (e la
sbandierata intesa sessuale occupa posti
inferiori sulla scala!). Però non ci pare
che questo tema dell’amicizia – non
di una qualsiasi amicizia, ma “amicizia
coniugale” – sia davvero conosciuto: e
aprirebbe orizzonti di grande respiro.
Anche il tema della “consultazione
reciproca” (termine di cinquant’anni
fa e quanto mai moderno!) è da mettere
in primo piano: lo vediamo nel nostro
lavoro: oggi spesso ciascun genitore
dice “mio figlio”, e crede di porne
le linee di sviluppo in proprio, e se ne
guarda bene dal “consultare” l’altro
genitore; se lo facesse, quanti problemi
in meno! Di solito oggi sono le madri
– per passione e per solitudine – a
occupare l’intero della genitorialità,
ma non conoscono più l’arte della
“consultazione”; spesso chiediamo a
un genitore: «Scusi ha consultato il
suo collega?», e troviamo sguardi stupiti:
al massimo il/la collega genitore
è da istruire su come dovrebbe fare!
Ma c’è di più: sia pure nella brevità
della trattazione, la Gaudium et Spes
mette le premesse di una vera e propria
teologia nuziale: il documento pone
i fondamenti del rapporto coniugale,
offre loro mete altissime come la
«mutua santificazione», corredate dalla
grazia per raggiungerle, ma offre
agli sposi un nuovo compito-missionevocazione
che non solo li integra a pieno
nella missione della Chiesa, ma dà
loro uno spazio particolare, non sostituibile
da nessuna laicità, per quanto
santa. Gli sposi hanno compiti di testimonianza
e di partecipazione che i
consacrati non possono occupare; hanno
un volto ecclesiale specifico, quello
del “già”, nel testo citato di don Tonino
Bello. Come siamo lontani dalla
concezione di un matrimonio come
“via larga”, dequalificata e quasi sopportata!
Ascoltiamo: «Cristo Signore
ha infuso l’abbondanza delle sue benedizioni
su questo amore molteplice,
sgorgato dalla fonte della divina carità
e strutturato sul modello della sua
unione con la Chiesa... l’autentico
amore coniugale è assunto nell’amore
divino e perciò la famiglia cristiana
che nasce dal matrimonio, come immagine
e partecipazione del patto
d’amore del Cristo e della Chiesa, renderà
manifesta a tutti la viva presenza
del Salvatore del mondo e la genuina
natura della Chiesa» (49, passim).
«E infine i coniugi stessi... seguendo
Cristo, principio di vita, nelle gioie e
nei sacrifici della loro vocazione, attraverso
il loro amore fedele, possano diventare
testimoni di quel mistero
d’amore che il Signore ha rivelato al
mondo». Sottolineiamo: gli sposi sono
immagine e partecipazione delle nozze
(patto d’amore) tra Cristo Sposo e
la Chiesa Sposa; essi rendono presente
la dimensione nuziale della Chiesa che
attende lo Sposo e si lascia da Lui plasmare;
non si tratta di una semplice immagine,
di una volatile metafora come
sarebbe poniamo la bandiera immagine
della patria, ma di una partecipazione
di quel mistero d’amore che lega
Cristo alla sua Chiesa; gli sposi sono
dentro questo patto d’amore, lo presentificano,
lo mostrano al mondo. Sono
chiesa nell’essere parte di questo
patto d’amore; è a dire: senza gli sposi
verrebbe appunto meno questa presentificazione
di Cristo che ama la sua Sposa
di amore nuziale! Altrove, abbiamo
parlato dei due fuochi (Ordine e Matrimonio)
che costituiscono l’ellisse Chiesa-
comunità di fede; ciascun sacramento
è correlato all’altro, nessuno dei
due può stare senza l’altro5. Questa lettura
del rapporto di partecipazione alla
Chiesa sposa da parte della coppia
è stata ampiamente esplorata dal Magistero
successivo: basti pensare alla
Familiaris Consortio del 1981. Ma di
nuovo ci chiediamo quanto di ciò sia
oggi trasmesso nella prassi ecclesiale!
Un ultimo spunto di riflessione: la
Gaudium et Spes ha la netta convinzione
che la coppia (e la famiglia) non nasce
dal nulla, né si esprime nel vuoto
poiché «Il bene della persona e della
società umana e cristiana è strettamente
connesso con una felice situazione
della comunità coniugale e familiare»
(47). Occorre pertanto che si sviluppi
una rete a partire dalla famiglia e attorno
alla famiglia «con un’azione concorde
con gli uomini di buona volontà
» (52): qui è avviato il concetto di
ogni associazionismo a sostegno della
famiglia e di tutta quella gamma di
gruppi familiari in cui oggi le famiglie
cercano di “portare insieme” gli oneri
e la dignità dell’essere famiglia.
Da ultimo, ma non da ultimo, viene
delineato l’intervento del clero a sostegno
della famiglia. Il passo è davvero
prezioso: «È compito dei Sacerdoti,
provvedendosi una necessaria competenza
sui problemi della vita familiare, aiutare amorosamente la vocazione
dei coniugi nella loro vita coniugale e
familiare, con i vari mezzi pastorali: la
predicazione della parola di Dio, il culto
liturgico e altri aiuti spirituali; e aiutarli
con umanità e pazienza nelle loro
difficoltà, rafforzarli nella carità, perché
si formino famiglie risplendenti di
serenità luminosa». Sottolineiamo che
la necessaria competenza richiesta ai
preti capovolge la “tuttologia” di cui
un tempo i preti si pensavano portatori;
«l’aiutare la vocazione dei coniugi»
diviene compito sacerdotale, per il carisma
loro proprio di pastori del popolo
di Dio. Come abbiamo cercato di mostrare,
il testo della Gaudium et Spes su
matrimonio e famiglia irrompe su una
contemporaneità che appare lontana
anni luce rispetto al concepire la dignità
e la santità degli “atti coniugali”, rispetto
al bonum del patto coniugale come
fonte di santificazione reciproca di
rendere gloria a Dio attraverso l’«intima
comunità di vita e di amore».
Ma il dettato conciliare contesta con
altrettanta forza l’attualità in cui il rapporto
d’amore viene visto come provvisorio,
in funzione del prevalere delle
pulsioni e del sentimento e sempre più
“privato”, relegato nella sfera dell’intimità
che non ha più a che fare con il
volto pubblico del rapporto. Le novità
più dirompenti però – proprio nel tessuto
ecclesiale – sono ancora oggi le radicate
convinzioni di una teologia nuziale
come immagine e partecipazione
delle nozze Cristo-Chiesa. Ma, a nostro
parere, queste novità stanno “lavorando”
non solo nei documenti del Magistero,
ma in una maggior coscienza/
autocoscienza della propria dignità
e missione da parte di molte coppie cristiane.
Il fermento c’è, e già si intravedono
i frutti. Troppo tardi per sbocciare
ben mezzo secolo dopo? Non ci pare.
Occorrono “tempi biblici” per novità
di questa portata. E la pazienza dello
Spirito non è ancora esaurita.