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Cosa rischiano i nuovi schiavi del web

10/04/2014  Il fenomeno dell'abuso da internet e della patologia ad esso collegata è noto, ma ancora dai contorni nebulosi. Un congresso internazionale a Milano ha cercato di fare il punto sugli studi scientifici.

“Un eroinomane lo vedi sulla panchina  della stazione o in metropolitana, ma un web-dipendente se ne sta chiuso nel suo appartamento. E’ difficile percepire   l’entità di questa nuova patologia. Ma genitori e insegnanti sicuramente sanno di che stiamo parlando”. Paolo Antonio Giovannelli, psichiatra, direttore dell’EscTeam di Milano, spiega così la difficoltà di far emergere un fenomeno come quello delle dipendenza da internet e i rischi a cui va incontro chi chatta in continuazione, o si relaziona solo coi social network, o ancora videogioca tutta la notte. Insomma chi può diventare “web-compulsivo” e naufragare nel virtuale senza rendersene conto.      

   “Non esistono cifre precise, ma in Italia sono già decine di migliaia i giovani coinvolti da questa nuova patologia. Non si tratta certo di una epidemia: si parla di una percentuale stimabile  al 3-5%  di tutta la popolazione giovanile.  Sembrano pochi. Ma se si considera che la schizofrenia ha un’incidenza dell’1-2%, si può capire che è un fenomeno preoccupante già adesso e che richiede di prepararsi a dare risposte adeguate”. 

  Gli aspetti psicopatologici da abuso di internet sono allo studio della comunità scientifica da una decina d’anni e già dal 1995 si  parla di “internet addiction  desorder”, disturbo da internet-dipendenza. Ma una diagnosi internazinale condivisa non esiste ancora. Pochi però sono i dati epidemiologici, molte le voci allarmistiche.    

   Di accertato, comunque, c’è che il Web e le relazioni col Web  stravolgono il concetto classico di tempo e di spazio. “Il tempo digitale è più intenso e tende a sovrapporsi rendendoci tutti più compulsivi, riduce le attese, ma anche la nostra capacità di attendere”, afferma Federico Tonioni, psichiatra, responsabile del Centro per la psicopatologia web-mediata del policlinico Gemelli di Roma. “Il monitor di un pc o di un ‘i-phone’ funge da barriera contro stimoli emotivi sentiti come eccessivie come tale può essere usato per crescere o per regredire. E’ qui che una eventuale evoluzione può diventare una patologia”.   

   La dipendenza da internet crea disturbi al sonno, aumenta l’ansia e l’insoddisfazione, abbassa l’autostima. Induce a comportamenti coatti fino a creare seri problemi alla salute fisica, relazionale ed economica della famiglia. Condiziona sicuramente l’umore. “Risulta infatti da ricerche di base una diretta  associazione tra questa dipendenza,  depressione e impulsività. Si riscontra in questi pazienti un calo del tono dell’umore subito dopo l’esposizione alla rete, che può portare a un maggiore riutilizzo di internet nel tentativo di evitare il malessere”, osserva Roberto Truzoli, psicologo clinico del’università di Milano.    Altri studi hanno evidenziato l’aumento di scelte impulsive nel paziente dopo l’esposizione a internet: ciò significa, sempre secondo Truzoli, “un rischio maggiore in questi soggetti di comportamenti problematici come il gioco d’azzardo e la pornografia”.

Si è infine notato una diretta correlazione tra dipendenza e velocità di connessione in rete. “In Corea del Sud, uno dei pochissimi Paesi dove sono state realizzate  stime avanzate sul fenomeno, la velocità di connessione è quattro volte superiore alla nostra e lì pare che l’incidenza delle dipendenze sia molto più elevata. La pagina che fa fatica a caricarsi induce più facilmente a scollegarsi dalla rete, evitando l’abuso”, afferma ancora Giovannelli.   

    In altri termini la nostra arretratezza rispetto alla ‘banda larga’ fa da fattore protettivo allo sviluppo delle web-dipendenze. Ma fino a quando? E che fare per prevenire? “Sempre in Corea s’è anche sperimentata l’efficacia di un piano di prevenzione  varato dal governo locale, consistente in un modello d’intervento nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Un incontro psicoeducativo all’anno a partire dalle scuole dell’infanzia fino all’università e poi ancora nelle aziende. E’ un modello che si potrebbe  trasferire anche in Italia”.      

 
 
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