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lunedì 24 marzo 2025
 
medio oriente
 

La Siria in mano ai ribelli. Cosa succede ora?

09/12/2024  Il regime di Assad, uno dei più violenti e sanguinari dell’epoca contemporanea, è stato rovesciato dai ribelli “eredi” della primavera araba in soli 11 giorni. L'ex dittatore ha lasciato il Paese ed è andato a Mosca dall’alleato e sostenitore Putin

Gli Assad hanno dominato la Siria dal 1970, quando Hafez, il padre di Bashar, prese il potere con un colpo violento di stato. I due si sono succeduti al potere e hanno governato in modo crudele e spietato sulla popolazione civile, tra uccisioni indiscriminate di oppositori e lo stermino diretto e con il sostegno attivo della Russia, dei civili, bombardati intenzionalmente su ordine di Assad dagli aerei di Putin e massacrati con agenti chimici. Oltre al dittatore caduto, il vero sconfitto di questa partita è infatti Vladimir Putin, che non è stato in grado di sostenere Assad contro i ribelli a causa del logoramento della guerra contro Kiev e delle sanzioni del mondo Occidentale. La Siria dopo il 2015 era “il porto sul Mediterraneo” di Mosca, grazie alla base navale di Tartus, per questo la destinazione della fuga della famiglia Assad è stata proprio la capitale della Russia, come conferma l’agenzia di stampa del Cremlino. 

E intanto proprio all’ambasciata siriana di Mosca, la bandiera assadista della Siria è stata tolta e sostituita con la nuova bandiera siriana, usata in questi giorni dai ribelli.

Mentre le forze antigovernative guidate da Hayat Tahrir al-Sham, con a capo Abu Muhammad al Jolani parlano dell’inizio di una "nuova era”, con la dissoluzione del regime di Bashar al Assad, e con la permanenza delle forze di occupazione turche e americane nel nord e nell'est del paese, ci si interroga sulle prospettive che attendono il paese martoriato da 14 anni di guerra e da oltre 50 di dittatura. Tre ipotesi emergono con maggiore frequenza: la prima vede la Siria seguire un modello simile al Libano, con un fragile equilibrio tra le comunità religiose ed etniche. In questa prospettiva, le potenze straniere sul suolo siriano - Usa, Turchia, Russia, Israele - manterrebbero un'influenza diretta sul Paese attraverso alleati locali, stabilendo una spartizione informale del potere. Come in Libano, le tensioni tra le comunità rischierebbero di esplodere periodicamente, mentre la popolazione continuerebbe a soffrire di servizi pubblici carenti e di una stagnazione economica.

C’è poi la via della risoluzione Onu 2254 del 2015, che offre una base per lo scenario più auspicabile da parte della comunità internazionale. Se nel pomeriggio di oggi si tiene un’incontro straordinario alle Nazioni Unite, il percorso di questa risoluzione prevede un processo teorico chiaro ma complesso da applicare: mantenimento delle istituzioni dello Stato - distinto dal regime - inclusi le forze armate regolari e l'amministrazione civile, e un processo politico supervisionato da attori internazionali. Un comitato costituzionale, rappresentativo di tutte le componenti politiche, etniche e religiose, sarebbe incaricato di redigere una nuova costituzione. Tale processo includerebbe anche i curdi, oggi ai margini nelle regioni nord-orientali controllate dagli Usa. Una volta completata questa fase, nuove elezioni garantirebbero la partecipazione di tutte le forze politiche, dai partiti storici come il Baath ai nuovi movimenti, compresi quelli islamisti radicali.

L’ultime scenario, che potrebbe emerge come il peggiore per la Siria, prevede che come in Libia, il paese rimanga ostaggio di una miriade di signori della guerra, forze straniere e gruppi estremisti, tutti impegnati in una competizione violenta per il controllo delle risorse e del potere. La popolazione continuerebbe a vivere nell'incertezza e nella miseria. Con una crisi economica dilagante, i siriani sfollati - circa 13 milioni tra rifugiati all'estero e sfollati interni - vedrebbero allontanarsi ulteriormente ogni speranza di ritorno. Questo scenario, caratterizzato dall'assenza di uno Stato centrale funzionante, lascerebbe la Siria in un limbo per anni.
Ma consentirebbe alle potenze esterne - in primis Usa, Turchia e Iran, che oggi beneficiano del collasso di russi e iraniani - di rimanere dominanti nella regione. 

Dopo l'arrivo dei ribelli a Damasco domenica, sono centinaia le persone, soprattutto donne, che sono corse alla prigione militare di Sednaya chiamata "il mattatoio umano", dove sono stati per decenni torturati e uccisi gli oppositori del dittatore fuggito Bashar al-Assad. Sui social media sono stati diffusi drammatici video dove da fuori queste donne urlano i nomi dei loro cari scomparsi o arrestati. Il numero delle persone scomparse in questi anni è superiore a centomila. Secondo le organizzazioni per i diritti civili, almeno trentamila persone sono morte in questo carcere a seguito di tortura.

Intanto il segretario di Stato americano Antony Blinken ha detto che gli Stati Uniti «sosterranno gli sforzi internazionali perché il regime di Assad e i suoi fiancheggiatori [Russia, Iran, la milizia-partito libanese Hezbollah in prima fila] rispondano delle atrocità e degli abusi perpetrati ai danni del popolo siriano, incluso l’utilizzo di armi chimiche e l'ingiusta detenzione di civili come Austin Tice». Il riferimento è al giornalista freelance americano arrestato a Damasco il 14 agosto del 2012 mentre stava coprendo la guerra civile in Siria. Le forze Usa dispiegate nell'area nelle scorse ore hanno bombardato 75 obiettivi dell'Isis, che Washington ha dichiarato non intende lasciar ricostituire.

Nel fine settimana inoltre, dopo la presa di Damasco da parte dei ribelli ad Assad, ci sono stati scontri a Nord tra milizie sostenute dalla Turchia e altre sostenute dagli Stati Uniti vicino a Manbij, una città controllata dai curdi nel nord della Siria, vicino al confine con la Turchia. Sabato l’Esercito Nazionale Siriano, sostenuto dalla Turchia, ha bombardato una base militare curda delle Forze Democratiche Siriane (SDF), ovvero una coalizione di milizie arabe e curde sostenuta dagli Stati Uniti. Sarebbero 22 i membri delle SDF che sarebbero morti nell’attacco, mentre oltre 40 sarebbero rimasti feriti. Poco dopo gli scontri il segretario alla Difesa statunitense Lloyd J. Austin ha parlato al telefono con il ministro turco della Difesa, Yasar Guler: i due hanno concordato sulla necessità di «prevenire ulteriori peggioramenti di una situazione già volatile». 

Sul confine meridionale invece, domenica Israele ha inviato truppe e carri armati per occupare il versante siriano del monte Hermon, nelle alture del Golan, un territorio conteso da decenni tra i due Paesi. Una pezzo di territorio che Israele occupò nel 1967, durante la guerra dei Sei giorni, sottraendole al controllo della Siria. La situazione attuale di quella striscia di territorio è stata decisa nel 1973, con un accordo negoziato dell’Onu che prevedeva la creazione di una “zona cuscinetto” di circa 400 chilometri quadrati, che da alcune ore l’esercito di Benjamin Netanyahu ha occupato come - ha detto lo stesso Netanyahu - «misura temporanea difensiva». 

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La fine del regime del dittatore siriano Bashar al Assad
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