Lapo Pistelli con Meriam e i suoi bambini
“La partenza di Meriam e
della sua famiglia per gli Stati Uniti è imminente”, annuncia a
Famiglia Cristiana il viceministro degli esteri Lapo
Pistelli. Pistelli, fiorentino, 50 anni, racconta alcuni
retroscena dell'operazione che ha consentito l'arrivo in Italia di
Meriam, la donna sudanese che era stata condannata a morte per
apostasia.
E' stato proprio Pistelli ad accompagnare Meriam e i suoi
familiari in Italia, dopo un lavoro diplomatico rimasto nella più
assoluta segretezza fino all'ultimo momento.
Viceministro Pistelli,
la prima osservazione è che in un'epoca di open diplomacy, dove a
volte sembra che la politica estera sia fatta soprattutto su
Twitter, resta uno spazio per la segretezza e la diplomazia
tradizionale, è così?
"Verissimo, è una
osservazione che condivido, anche se personalmente sono un
sostenitore dell'open diplomacy e del fatto che ormai gli Stati non
sono più gli unici soggetti delle relazioni internazionali. Questo è
stato un caso in cui effettivamente un dialogo riservato ha
dimostrato di avere ancora una sua efficacia. Forse grazie anche
alla natura particolare del Sudan, un paese che si sarebbe peggio
prestato di altri a un negoziato fatto su Twitter o solo attraverso
appelli dell'opinione pubblica".
Come ha funzionato il
lavoro di squadra fra Italia, Sudan e Stati Uniti che ha portato
all'arrivo in Italia di Meriam?
"A noi e agli americani
interessava prima di tutto il destino di Meriam e dei suoi cari, ma
insieme abbiamo visto in Meriam anche un simbolo della libertà di
espressione religiosa. Gli Stati Uniti avevano un interesse
importante perché Daniel, il marito di Meriam, ha anche la
cittadinanza americana, quindi scatta l'obbligo di protezione e
accompagnamento dei propri cittadini all'estero. Italia e Stati Uniti
hanno un rapporto diverso con il Sudan. Gli Stati Uniti, con
Khartoum, sono un po' più duri e non da oggi. Noi italiani non
facciamo il cuore tenero, ma con tutti i Paesi di quella regione
abbiamo sempre avuto, rispetto agli americani, un rapporto più di
ascolto. In questo caso, il gioco del poliziotto buono e del
poliziotto cattivo ha permesso di lavorare in squadra. E' chiaro che
i sudanesi non avrebbero restituito volentieri Meriam e la sua
famiglia direttamente agli Stati uniti, ma hanno permesso che lo
facessimo noi proprio perché siamo noi, perché non ci siamo troppo
esposti. Non siamo andati a rapirli con i corpi speciali, abbiamo
persuaso le autorità sudanesi che era un loro interesse risolvere la
questione".
Questa capacità di
persuasione dell'Italia attraverso il soft power potrà spingere il
Governo sudanese a evitare nel futuro altre violazioni della libertà
di espressione religiosa?
"E' un punto che ho avuto
il privilegio di discutere col il Santo Padre quando ci
ha ricevuti in Vaticano. Lui ha subito detto a Meriam: “Vede che
i miracoli ci sono”? E quando Meriam ha espresso delle
preoccupazioni sulla sua vita futura e quella dei suoi figli, il
Papa le ha detto: “Come dice uno scrittore italiano”, ma non so
a chi si riferisse, “i miracoli non vengono mai fatti incompleti”.
A quel punto sono intervenuto dicendo: “Guardi, santità, che il
miracolo successivo può essere ancora più grande di quello che lei
immagina”".
A quale miracolo
allude?
"Il ministro degli Esteri
sudanese Ali Ahmed Karti, con cui ha trascorso le ultime 4 ore prima
del via libera per l'aereo, mi ha spiegato che, secondo una una
delle sure più sacre del Corano, non può esserci conversione con
la coercizione. Ha aggiunto che il caso di apostasia conclamata di
Meriam è stato l'unico perseguito in 25 anni, quindi potrebbe essere
il momento di rivedere l'ordinamento giudiziario. Perciò ho detto
al Papa che in Sudan potremmo avere finalmente una libertà religiosa
riconosciuta dall'ordinamento. Sarebbe un bel miracolo passare da
Hassan al Tourabi, uno degli interpreti più rigidi della ortodossia
islamica, a un Sudan più tollerante".
Quante Meriam ci sono
ancora nel mondo?
"Il lieto fine della
vicenda di Meriam non ci libera dalla preoccupazione per quei Paesi
dove la persecuzione delle minoranze, compresa quella cristiana, è
all'ordine del giorno. Penso all'Iraq, dove mi recherò fra poco
visitando il Kurdistan. Lì il tema della deportazione manu militari
delle minoranze, dopo le scorrerie dei militanti del gruppo Isis, è
un fatto di assoluta gravità".
E' passato un anno
dalla scomparsa in Siria di padre Paolo Dall'Oglio, che cosa può
dirci su questa vicenda? Che cosa sapete della sua sorte?
"Quello di padre Paolo è
uno di quei casi su cui non abbiamo mai spento la luce, giorno e
notte. In questo anno abbiamo oscillato da momenti nei quali ci era
data per certa l'uccisione di padre Paolo a momenti in cui ci veniva
data la localizzazione esatta del luogo, della prigione e persino del
numero della sua cella. C'è stata un'azione costante di verifica
sull'affidabilità delle fonti. Tutto è reso complicatissimo dal
controllo a macchia di leopardo del territorio siriano. Anche se
potessimo sapere con certezza dove padre Paolo si trova, e non lo
sappiamo, il problema diventa come prenderlo e come portarlo a casa.
Siamo sul caso 24 ore su 24. Così come per la vicenda di Giovanni
Lo Porto, il cooperante italiano scomparso da due anni in Pakistan,
lavoriamo ogni giorno, senza inseguire bolle mediatiche".