Caro don Antonio, chi le scrive è una
quarantenne, arrivata ormai agli
sgoccioli. Il buon Dio ha concesso a
me e a mio marito la grazia di diventare
genitori, compito che cerchiamo
di portare avanti con impegno. Alcuni
anni fa la ditta per cui lavoravo ha chiuso
i battenti, lasciandomi a piedi, senza neanche
farsi troppi problemi. Da allora è cominciato
per me un vero e proprio calvario. Sono sempre
stata una persona grintosa e positiva, non
mi sono mai lasciata abbattere dalle difficoltà
e dalle situazioni difficili (un aborto, la perdita
di una persona cara, un problema di salute non
grave ma costante). Così mi sono rimboccata
le maniche e ho cominciato a bussare a tutte
le porte, a fare colloqui su colloqui, prove di
lavoro, spesso nemmeno retribuite. Ma adesso
non ce la faccio davvero più.
La speranza s’è trasformata in delusione e
rassegnazione. I lavoretti saltuari che ho fatto
qua e là non si sono mai trasformati in un
normale contratto. C’era sempre qualcuno
più capace o che “costava meno” di una dipendente.
Quante illusioni, quante false speranze
che qualcosa cambiasse. So di essere una brava
lavoratrice, onesta e professionale, mi adatto
a tutto. A poco a poco ho cominciato a spegnermi.
L’allegria e la voglia di stare insieme
agli altri hanno lasciato il posto alla tristezza
e alla solitudine. Mancando uno stipendio in
famiglia, ho dovuto rivedere il mio modo di
vivere e di gestire il denaro. Centellino il centesimo,
ogni giorno. Non possiamo permetterci
svaghi. Tutto va nelle bollette, nelle tasse,
nella macchina, nel sostentamento quotidiano.
Per noi non esistono vacanze o uscite in
compagnia. Non oso immaginare quando arriverà
qualche spesa improvvisa.
Quando sono in casa sola, piango. Sono
stanca. Il tempo passa e nessuno ti chiama. È
umiliante. Mi accontenterei di un lavoro modesto,
onestamente pagato. Ho perso anche
la voglia di stare in mezzo alla gente, non ho
voglia di vedere gli amici di sempre o i parenti
per non dover sentirmi fare la solita domanda:
«Allora, non hai trovato ancora niente?»,
come se dipendesse da me. Quante umiliazioni,
quante frustrazioni.
Anche in famiglia i rapporti sono più complicati.
Mi rendo conto di essere sempre nervosa,
di avere meno pazienza, di “scattare” per
un nonnulla. Con mio marito, che mi ama e
che amo davvero, i rapporti si sono ormai raffreddati.
Non ho più interesse per nulla. Vado
a letto la sera piangendo, mi sveglio la mattina
già con un senso profondo di malessere. Anche
il rapporto con Dio ne ha risentito. Da quando
ho perso il lavoro ho intensificato la preghiera
e la devozione ai santi. Non è lecito pregare
per una cosa che non è un capriccio, ma una
necessità? Non riesco a uscire da questa situazione.
Né mi vergogno ad ammettere che ho
accarezzato l’idea di farla finita, ma avrei causato
troppa sofferenza ai miei cari. Non so bene
perché le ho scritto, forse perché non ci conosciamo
di persona e per me è più facile parlare...
Preghi per me e scusi lo sfogo.
LORETTA
Cara Loretta, non è facile trovare le parole
per lenire, almeno per un po’, il dolore
e la profonda amarezza che ormai
segnano ogni momento della tua vita,
dal mattino alla sera. Una situazione,
al momento, senza uno sbocco plausibile,
che ti fa vedere tutto nero, fino a sfiorare l’idea
di una via estrema, senza ritorno. Per fortuna,
l’amore per tuo marito e i tuoi gli ti ha fatto
desistere dal dare seguito alla disperazione.
Non sei la sola, purtroppo, a lamentare la perdita
del lavoro, con tutte le conseguenze negative
che ricadono a cascata sulla vita personale e familiare.
Una precarietà che rende il futuro pieno
di incognite e incertezze. Ti assicuro il ricordo nella
preghiera, con la speranza che un raggio di sole
possa, prima o poi, giungere a rischiarare il buio
della tua vita. Il lavoro è anche dignità, non
solo una necessità per vivere e sopravvivere.
Una lettera come la tua, mi piacerebbe che i
politici la leggessero e rileggessero in continuazione,
per comprendere quali sono i problemi
reali da risolvere e per i quali sono stati eletti. Il
primo articolo della Costituzione recita che «l’Italia
è una Repubblica democratica fondata
sul lavoro». Parole che richiederebbero un seguito
concreto o, per lo meno, la stessa passione con
la quale i nostri parlamentari affrontano altri
temi di minor valore rispetto al bene comune.
In Italia la disoccupazione giovanile è alle stelle;
dai venticinque anni in giù raggiunge la soglia
del quaranta per cento. Cifra che non può passare
inosservata, senza balzare in cima alle priorità del
Paese. Il futuro deve essere garantito a tutti,
evitando che la ricchezza si concentri nelle
mani di pochi privilegiati. «Il lavoro non è un
dono gentilmente concesso a pochi raccomandati»,
ha detto più volte papa Francesco, «è un diritto per
tutti». L’economia deve servire l’uomo, non servirsi
delle persone. Se non si comprendono questi elementari
princìpi, la politica è inutile, va rifondata.
A partire da un nuovo umanesimo del lavoro.