Vincere, spesso, vuol dire vincere la paura di non essere all’altezza
del qui e ora che gli appuntamenti dello sport impongono, a volte in
modo inesorabile. Si pensi alla finale olimpica, ai rigori che decidono
un Mondiale di calcio. Sono l’emblema dell’occasione di una vita, che
viene una volta sola e poi sfuma. O l’afferri o fallisci, per sempre, il tuo momento della verità.
E allora esorcizzare in qualche modo la paura diventa il primo dei problemi, il che spiega piuttosto bene il dispiegamento di gesti volti a scacciare gli influssi maligni, la jella e tutti sinonimi più o meno triviali della sfortuna, cui assistiamo sui campi sportivi, non a caso parodiati da Lino Banfi-Oronzo Canà.
Non potendo allontanare la paura che la prova comporta ci si aggrappa dove si può. Come dimostra il taglio alla marine di Morata. Nulla sappiamo dei riti degli azzurri che come lui non hanno potuto scansare il venerdì 17 sul calendario. Ma si sa che a bordo campo vige il non ci credo ma non si sa mai.
Chi ha una fede, a volte, scende a patti con chi comanda in cielo:
Maradona da Ct dell’Argentina ai Mondiali 2010 andava in panchina con il Crocifisso, Evgeni Plushenko, stella polare del ghiaccio a Torino 2006,
andò a ringraziare per il successo con un segno della croce ortodosso,
proprio nel punto preciso della pista in cui aveva rischiato di cadere e
rovinare tutto. Il campionario dei segni religiosi è lunghissimo. E chiama in causa una domanda da un milione di dollari: per chi tifa il Padreterno?
E l’altra, ancora più impegnativa che sorge di conseguenza: chi marca,
sui campi di gara dove al segno della croce dell’inizio può seguire
l’imprecazione dopo il calcione rimediato, il confine tra fede e scaramanzia? A che punto della scala si colloca, per esempio, l’acqua santa di Trapattoni?
Se il campo semantico, per così dire, religioso è diffuso ma ristretto a pochi segni
da tutti identificabili, quello dei rituali che potremmo chiamare
pagani è pressoché infinito, soggettivissimo, il più delle volte
riconoscibile nella reiterazione ma misterioso nei simboli. Un bailamme di riti, di gesti, di tic, nati il più delle volte, per caso, dalla coincidenza
di averli compiuti per la prima volta in una circostanza rivelatasi poi
fortunata e all’infinito ripetuti per ripropiziare la buonasorte,
all’insegna del “chissà se è poi stato quello? Ma non si sa mai”.
Si pensi al bacio stampato da Blanc sulla pelata del portiere della Francia Barthez, cominciato al Mondiale 1998, vinto dai francesi, e terminato con il ritiro dal calcio giocato di Blanc. O alla barba rasata a metà da un solo lato del saltatore in alto Gianmarco Tamberi.
Ma vale anche per il tormentone di Alberto Tomba al telefono con il padre dopo ogni vittoria: «Papà, pianta la pianta!»,
che nella sintesi non si sa quanto consapevolmente comica di Alberto
era l’invito, rivolto al padre in diretta, a piantare un nuovo albero in
giardino. L’aveva fatto papà Tomba di propria iniziativa dopo la prima
inattesa vittoria in coppa di un giovanissimo Albertone ed è subito
diventato un rito: «Papà, dai che facciamo un bosco».
Altre volte invece il rituale si ripete come un mantra mille volte in una partita, si pensi a Rafa Nadal
che prima di servire si toglie la terra dalle scarpe, si aggiusta, con
rispetto parlando, i boxer, i calzini e la fascetta sulla fronte, fa
rimbalzare la palla una decina di volte con la racchetta, e poi
finalmente, dopo averla fatta rimbalzare altre volte con la mano libera,
batte. In questo caso è probabile che la sequenza serva più ad
accendere l’interruttore della concentrazione che a chiedere alle stelle
l’ennesimo ace.
Ecco sì, forse quella degli sportivi è una scaramanzia al contrario, non cerca di allontanare il carico di malasorte – perché non si sceglie il giorno e l’ora e neanche il numero di partenza e un venerdì 17 ci può sempre scappare - ma di propiziare quella buona.
Avevano certamente questo fine i due numeri separati da un punto che la
Juventus di qualche anno fa usava scriversi sulle mani. A chi osava
chiedere spiegazioni rispondevano: «E’ un rito scaramantico. Ma non
possiamo spiegare il significato dei numeri altrimenti non funziona
più».
La buonasorte del resto, che si sappia, è l’unico aiutino che l'antidoping non indaga.
Arrigo Sacchi, allenatore di un Milan stellare, del resto, non ha mai
fatto mistero di ritenerla uno dei tre ingredienti indispensabili della
ricetta del pallone vincente: «Occhio, pazienza e b…». B…uonasorte.
Anche se per la verità lui la chiamava in un altro modo, un po’ meno
aulico. La traversa di Parolo e il gol di Eder a tre minuti dalla fine nel venerdì 17 di una partita così così dimostrano, oggi più che mai, che Sacchi aveva ragione, che la qualificazione passa anche di lì.
E se fosse un po' merito della coccinella salvata da Barzagli, che l'ha trovata in campo e affidata a un preparatore atletico perché non finisse schiacciata durante la partita?