«Il nostro lavoro deve dare certezze. Non possiamo arrivare dalle persone che hanno avuto i propri cari massacrati e dire “adesso vediamo”. Dobbiamo dare l’acqua da bere, e lo si deve fare oggi. Dobbiamo dare loro un pasto caldo, e lo si deve fare stasera. E per domani ci deve essere il luogo dove dormire. Ci vuole coraggio, determinazione, anche fantasia per realizzare queste azioni di pace».
La prima sensazione che trasmette Marzio Babille è la passione, non solo per il suo lavoro, quanto per i destinatari del suo lavoro: le donne, gli uomini, i vecchi in situazioni di sofferenza estrema, soprattutto i bambini, dato che fino al 31 marzo scorso era il responsabile dell’Unicef nell’emergenza dei profughi iracheni, siriani, yazidi, e di tutte le altre minoranze in fuga dalla ferocia dell’Isis. La descrizione che fa degli interventi realizzati in Iraq, e in particolare in Kurdistan – come Unicef, ma anche come coordinatore umanitario dell’Onu, e ora per incarico diretto del ministero degli Esteri italiano – sono in realtà il racconto di una sfida quotidiana, della più alta delle sfide: salvare vite, aiutare il fiume di esseri umani in esodo. Arrivare, raggiungerli, soccorrerli, ma non domani o fra una settimana. La salvezza della vita, nel suo linguaggio conosce solo il tempo presente.
Babille, medico, nei prossimi giorni sarà al Premio Luchetta, nella sua Trieste. È in Iraq dal 2012. Da oltre tre anni opera in una delle più difficili e pericolose emergenze umanitarie del pianeta. Ha assistito alla caduta di Mosul e Tikrit. Ha visto l’offensiva dell’Isis a Sinjar. «Ho fatto tutto il possibile», dice. Secondo molti anche l’impossibile, o perlomeno interventi ritenuti tali: ha aperto 5 corridoi umanitari e ideato sistemi innovativi per rispondere “in tempo reale” alle necessità vitali di un milione di sfollati.
Sono numeri apocalittici, quelli della crisi irachena. Babille ha coordinato l’assistenza per 2 milioni e mezzo di profughi in Kurdistan e nelle regioni centrali dell’Iraq (Al Anbar, Ninive, Salahaddin, Dyiala) e in quelle meridionali (Karbala e Najaf). Ha protetto e riportato a scuola (seppure nei campi temporanei) centinaia di migliaia di bambini. E si è prodigato – cosa che continua a fare anche ora – per mettere in salvo le minoranze perseguitate dall’Isis: cristiani, yazidi, assiri, turcomanni, shabakh. Negli ultimi mesi segue direttamente le prime iniziative di stabilizzazione nelle zone liberate dai miliziani del califfato.
Un uomo di grande esperienza. Babille ha 60 anni, una vita passata a fare l’operatore umanitario. Snocciola luoghi e date: «Mi sono laureato in Medicina a Trieste», racconta. «E subito sono partito per l’Africa. Sono riuscito a laurearmi, il primo della mia famiglia. Il mio impegno umanitario l’ho vissuto come un modo per restituire agli altri la fortuna che ho avuto, nei luoghi dove ce n’era più bisogno».
E quindi l’Etiopia, fra il 1984 e il 1988. «Un’esperienza formidabile», spiega. «È indimenticabile ciò che mi hanno insegnato allora: non avevamo nulla, non c’erano strumenti, neanche l’ostetrico, avrò fatto un migliaio di cesarei. Ma quando ti passano davanti migliaia di casi di malaria e di bambini malnutriti, capisci che devi cambiare registro, passare su altra scala». Così Babille va in Inghilterra: master di sanità pubblica all’estero, specializzazione in medicina tropicale, medicina d’emergenza, igiene pubblica. E poi riparte. Angola, Iran, quattro anni fra Gerusalemme, Ramallah e Gaza per organizzare la sanità palestinese. Approda all’Unicef, dove lavorerà per questi ultimi 15 anni. Prima in Zambia, poi in India («Avevamo 1 milione e 700 mila neonati sottopeso e bambini malnutriti di cui occuparci», dice). E ancora in Ciad, dove si troverà ad assistere 220 mila minori e a liberare 2.500 bambini soldato. Infine in Libia, fino al dicembre 2011. E da lì in Iraq: «Io arrivavo», racconta, «e gli americani se ne stavano andando».
«Oggi», continua Babille, «il Governo autonomo curdo sostiene il 95 per cento dei profughi, è l’unica forza dispiegata a protezione dei civili, e hanno già avuto 1.200 morti e 6 mila feriti. Abbiamo tre milioni fra rifugiati siriani e sfollati iracheni, di cui più di un milione di bambini. Tutti scappano da zone controllate dai jihadisti. Ma il bisogno umanitario è molto più vasto: 8 milioni di persone, di cui 4 milioni di minori. Da tutte le parti scappano verso nord, da tutte le zone contese, tutti verso il Kurdistan. Nelle quattro ondate di fuga che ci sono state verso nord, i peshmerga curdi andavano a sud per proteggerli. Così è avvenuto anche per i cristiani fuggiti da Mosul. La protezione avanzata dei peshmerga ha permesso all’Onu di dare sostegno primario alla popolazione civile».
Ma adesso c’è un grosso problema, spiega il medico triestino: «Abbiamo potuto utilizzare 500 milioni di dollari messi a disposizione dall’Arabia Saudita. Ma ora sono finiti. È stato fatto un appello ai donatori per 497 milioni di dollari, senza i quali la metà dell’aiuto umanitario si ferma».
«È un dovere aprire corridoi umanitari», conclude. «Salvare vite umane è l’unico nostro obiettivo. E questo deve poter essere reso possibile, a tutti i costi e in tutte le condizioni. Fino ad ora, tranne le persone uccise dall’Isis, non è morto nessuno. È un grande successo, dal punto di vista umanitario, e l’abbiamo ottenuto con metodi molto innovativi. Ma temiamo che presto ci possa essere un’altra ondata di mezzo milione di persone. E dobbiamo essere pronti per evitare il peggio. Non vogliamo contare i morti, ma aiutare i vivi. E dare loro una prospettiva».