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lunedì 21 aprile 2025
 
Lampedusa
 
Credere

Costantino e Rosa Maria Baratta: casa nostra, un approdo per i naufraghi

13/10/2016  A tre anni dal naufragio in cui morirono 368 persone siamo andati a Lampedusa a conoscere chi ha salvato e accolto alcuni dei migranti: «Ero fuori a pescare, ho iniziato a tirarne a bordo uno, poi un altro. Tante cose sono cambiate dentro di me, penso al destino in modo diverso»

Il Giardino della memoria di Lampedusa è una pietraia che guarda verso il mare e in cui, per ora, fioriscono soltanto i cipuddazzi, sorta di gigli selvatici che sembrano enormi cipolle dallo stelo lungo e coriaceo. Costantino Baratta si aggira tra i sassi e ci mostra le minuscole piante di pino marittimo e di lentisco, poco più che germogli appena riconoscibili, uno per ognuno dei 368 migranti morti in mare il 3 ottobre del 2013.
Occhi chiari umidi di commozione su un volto segnato dal vento dell’isola, Costantino quella mattina presto era lì, sulla sua piccola barca da pescatore della domenica, a cercare di salvarne il maggior numero possibile. «Insieme al mio amico Onder Vecchi avevamo programmato di andare a buttare un po’ di lenze», ricorda. «A poca distanza dalla costa, vicino alla spiaggia della Tabaccara, vediamo uno sterminio di persone in acqua. C’era già la Capitaneria di porto e un peschereccio, ma noi eravamo la barca più piccola, che poteva manovrare meglio tra i naufraghi. E mentre Onder dirigeva la barca, io ho iniziato a tirarne a bordo uno, poi un altro, poi un altro ancora. Li tiravo su per le braccia se erano nudi, per la cinghia dei pantaloni se gli era rimasto qualcosa indosso. Boccheggiavano, tossivano per l’acqua mista a gasolio che avevano mandato giù, erano scivolosi come saponette. Qualcuno aveva ancora un po’ di forze residue, altri parevano quasi morti ma li abbiamo issati a bordo ugualmente, nella speranza che potessero farcela».

HA SALVATO 12 PERSONE

Quella mattina Costantino ne ha salvati dodici con le sue mani. Dodici ragazzi, uomini e donne, tutti eritrei in fuga da un regime tra i più oppressivi al mondo. Quegli stessi ragazzi che ancora oggi, a distanza di tre anni, tornano periodicamente sull’isola per ringraziare i lampedusani di averli accolti come figli; e per ricordare i loro compagni, amici, fratelli che quella maledetta mattina non ce l’hanno fatta, di cui resta soltanto una piantina fragile su una dolcissima pietraia definita Giardino della memoria.
Per le vie del centro di Lampedusa i ragazzi eritrei fermano «baba Costantino», lo abbracciano, sorridono. E poi chiedono notizie di «mama Rosa Maria», la moglie, che negli anni ha sempre aperto le porte di casa ai tanti disperati che sbarcavano sull’isola senza null’altro che non fosse i poveri abiti che indossavano e una carrettata di sogni per una vita migliore di quella da cui scappavano. «Il primo ragazzo che abbiamo accolto era un tunisino, nel 1999, quando ancora l’emergenza profughi a Lampedusa non esisteva», spiega Costantino. «Io sono muratore e l’ho trovato una mattina mentre andavo al cantiere, che beveva l’acqua stagnante che era rimasta nella nostra betoniera. Gli ho dato la bottiglia che mi ero portato dietro per la pausa pranzo e il mio panino. Poi, il giorno dopo, me lo sono portato a casa. Lo abbiamo lavato, rivestito e tenuto con noi fino a che ha avuto bisogno. Dopo tanto tempo, ancora oggi ci manda gli auguri per Natale, Pasqua e altre feste religiose. E lui è musulmano!».
Rosa Maria, che per anni ha girato per il paese con la borsa piena di frutta e pane («sapete, capita spesso di incrociare qualcuno dei ragazzi appena sbarcati che magari ha fame»), è molto credente e praticante, una colonna della parrocchia di San Gerlando. «Anche io sono religioso, ma in passato non andavo spesso in chiesa», dice Costantino. «Dopo quella mattina del 3 ottobre, però, tante cose sono cambiate dentro di me. Oggi non perdo una Messa neanche per tutto l’oro del mondo». Che cosa è successo realmente? «Tante cose...», risponde Costantino, quasi volesse svicolare da una domanda troppo intima.
Poi, dopo qualche attimo di silenzio, aggiunge: «Quando, dopo la tragedia del 2013, avevamo in casa alcuni dei sopravvissuti, mi capitava di dare un’occhiata alle pagine internet che i ragazzi visitavano dal nostro computer. Sapete, volevo evitare che finissero su siti pericolosi... Ebbene, le loro pagine Facebook contenevano soltanto preghiere e icone di Gesù e della Madonna, che è molto venerata tra i cristiani eritrei. Poi un giorno mi sono ritrovato a parlare con Luam, una delle ragazze che avevo issato a bordo mezza morta quella mattina. A un certo punto, mi fa: “È stato Gesù a mandare te e Onder con la barca proprio lì, in quel tratto di mare”. Da allora, ho iniziato a pensare al destino in termini diversi. E anche grazie all’incoraggiamento fraterno di don Mimmo Zambito, il nostro parroco, mi sono riavvicinato alla pratica religiosa».

UNA COPPIA SEMPLICE E FORTE

  

Costantino e Rosa Maria Maggiore, entrambi 59 anni, sono sposati da quasi 40. Hanno un figlio adottato, Francesco, che vive e lavora a Milano, di cui sono orgogliosi. E nei confronti dei tanti ragazzi profughi che hanno accolto in casa provano l’affetto che si nutre per altrettanti figli adottivi. Una coppia semplice e forte, che però non ha avuto sempre una vita facile: difficoltà economiche, e poi vari problemi di salute, che a Lampedusa rappresentano anche un salasso per le finanze familiari, dato che per ogni ricovero bisogna andare in Sicilia, spendendo tempo e denaro.
Per due anni, Rosa è passata da un ospedale a un altro per una polmonite che non si riusciva a curare. «L’anno scorso era davvero esausta ed esasperata», racconta Costantino con un mezzo sorriso in volto. «Un giorno l’ho trovata a casa, con gli occhi e le braccia rivolti al cielo, che urlava: “Allora, non ti pare che abbia sofferto abbastanza? Non è ora che mi fai guarire?”. Una settimana dopo siamo tornati a Palermo per una nuova tac. Il primario ha guardato i risultati ed è saltato sulla sedia: “Rosa, non hai più niente! Neanche le tracce dei postumi sono rimaste sui polmoni!”. Insomma, il cammino della nostra vita è stato tortuoso e accidentato, ma abbiamo toccato con mano che c’è un senso, una direzione». E dopo tante fatiche e tanti anni insieme, vi amate ancora? «Sempre! Come il primo giorno!».

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