Disarmanti, ma non
sorprendenti (purtroppo). Sono i risultati di un sondaggio che la Chiesa valdese ha commissionato a Gfk-Eurisko, resi noti qualche
giorno fa e utili, mi pare, a
contestualizzare meglio anche il caso
recente dell’istituto comprensivo di Tradate. Qualche dato.
Se
neppure un italiano su tre è capace di citare correttamente i
quattro evangelisti (Matteo, Marco, Luca, Giovanni), meno di uno su quattro sa indicare le virtù
teologali (fede, speranza, carità). Quando ci si addentra nelle pagine bibliche, non va
meglio: domandare chi abbia mai dettato i dieci comandamenti a Mosè
comporta, in otto casi su dieci, sentirsi rispondere un nome del
tutto improbabile. Mi fermo qui, per carità di patria.
Un paese che
non sa nulla della Bibbia, è improbabile – sosteneva il cardinale Carlo Maria Martini – che si apra all’altro, che faccia accoglienza. E’
proprio così.
L’attuale analfabetismo religioso, che non ci
permette neppure di cogliere appieno la funzione sociale del
pluralismo religioso oggi in atto (anche) in Italia
è figlio di una
doppia chiusura: del risorgente anticlericalismo insofferente di ogni
manifestazione pubblica delle comunità religiose e del
neoclericalismo nostalgico di un regime ormai concluso, il regime di
cristianità, e dimentico del messaggio conciliare più profondo.
Non
stupisce, pertanto, quanto è accaduto a Tradate, una delle tante
occasioni di conflitto sociale verificatesi negli ultimi anni su
questioni solo all’apparenza religiose ma in realtà legate al tema
spinoso della mancata valorizzazione delle diversità culturali e
religiose nei contesti locali: dalla presenza del crocifisso nelle
scuole e tribunali fino all’ostilità nei confronti
dell’edificazione di moschee o templi hindu (per fare solo un paio
di esempi).
La strada da imboccare, a mio parere, è quella di una
laicità inclusiva. La quale, più che togliere o bloccare, invita a
moltiplicare, ad aggiungere. A non aver paura del confronto. E’
insensato eliminare i canti natalizi, ad esempio, mentre sarebbe
opportuno, in presenza di studenti ebrei, valorizzare la festa
concomitante di Hanukkà, o, a fronte di alunni hindu, spiegare cos’è
il Diwali, e così via.
Su questa linea, sarebbe bello che, accanto
alla benedizione del presbitero cattolico, e mantenendo salva
beninteso la libertà delle famiglie che lo vogliano di non far
partecipare i propri figli ad alcuna funzione di alcun tipo,
accostarvi – nel caso – quella dell’imam locale, se esiste una
comunità islamica, o del pope, se c’è una chiesa ortodossa.
Ottenendone una lezione grande e fondamentale per il futuro di questo
paese: esercitarsi sin dai banchi di scuola a vivere il pluralismo,
culturale e religioso, come un’occasione di scambio e di
affinamento del proprio cammino spirituale (se esiste), e non come
una dannazione o, peggio, un problema esclusivamente di ordine
sociale.
Non sarà facile, finché non si investirà sul serio su
un’autentica educazione interculturale. Ma a chi interessa farlo
davvero?