Accanto al fattore Rt non sottovalutiamo il fattore “T”, inteso come tempo. Vediamo che chi deve decidere sul da farsi per contrastare la ricrescita dell’epidemia da Covid-19 litiga e temporeggia: si litiga in consiglio dei Ministri, i retroscena del Dpcm presentato a tarda sera del 18 ottobre, svelano divergenze aspre tra la linea “drastica” del ministro della Cultura Franceschini e del ministro della Salute Speranza, che chiedevano misure più stringenti, e quella morbida del Presidente del Consiglio Conte che ora dice: «Non voglio sentir parlare di nuovo lockdown, dobbiamo conciliare salute ed economia». È giusto, a patto di aver chiaro però che, come ripete Massimo Galli, «Il virus non contratta». Va per la sua strada con il ritmo che i nostri contatti più o meno ravvicinati gli consentono. Litigano i ministri, litigano maggioranza e opposizione (sempre pronta a fare il bastian contrario dicendo a giorni alterni che il Governo fa troppo o troppo poco); litigano centro e periferia, Regioni e sindaci, Regioni e Governo, Sindaci e Governo. Le ragioni sono comprensibili, ma non tanto giustificabili per chi si deve assumere la responsabilità di tutti noi: nessuno vuole il cerino dell’impopolarità. In altri tempi è un fatto fisiologico, in questa epidemia, che è situazione patologica in senso proprio e metaforico, il dato scientifico deve restare il faro, al centro e in periferia, indipendentemente dai colori.
Diversamente la montagna delle discussioni e delle consulenze rischia di partorire un topolino che non affronta a fondo i nodi critici, il primo dei quali è l’affollamento sui mezzi pubblici. C’è un dato che sembra sfuggire a chi deve decidere: i numeri fotografano più o meno la situazione di tre settimane prima rispetto al giorno in cui escono. Siamo al 19 ottobre, verosimilmente i numeri ci restituiscono la realtà del primo ottobre. Ma intanto vediamo dai numeri usciti a partire dal 5 ottobre che la curva dei contagi s’è impennata. Se ancora non è un andamento esponenziale sta cominciando a prenderne la forma sul grafico. Chi deve decidere deve sapere che se il suo obiettivo è abbassare il ritmo con cui sale quella curva non può rincorrerla, aspettando che una verticalizzazione ancor più decisa renda digeribili, giocoforza, misure più drastiche, deve agire prima, non dopo, e provare a prevenire quello che i numeri annunciano. L’andamento di una curva è prevedibile: i numeri di oggi ci dicono che a fine settembre il contagio stava già impennando, i risultati delle misure che prendiamo oggi si vedranno fra tre settimane, nel frattempo in queste tre settimane la curva, verosimilmente, salirà al ritmo di ora se non peggio. È inutile nascondersi gli occhi con le mani: dobbiamo saperlo noi e deve saperlo chi decide per noi.
Chi capisce di statistica nei giorni scorsi su questo sito ha spiegato che il dato significativo è il tasso a 14 giorni su 100.000 abitanti. Nell’ultimo rapporto settimanale del Ministero della salute (pubblicato venerdì 16 ottobre su dati fino all’11 ottobre) la situazione è descritta così: «Si riporta un’analisi dei dati relativi al periodo 5-11 ottobre 2020. Per i tempi che intercorrono tra l’esposizione al patogeno e lo sviluppo di sintomi e tra questi e la diagnosi e successiva notifica, verosimilmente molti dei casi notificati in questa settimana hanno contratto l’infezione alla fine di settembre. Alcuni dei casi identificati tramite screening, tuttavia, potrebbero aver contratto l’infezione in periodi antecedenti. Il virus oggi circola in tutto il Paese. È stato osservato un forte incremento dei casi che porta l’incidenza cumulativa (dati flusso ISS) nel periodo dal 28/9 all’11/10 a 75 per 100 000 abitanti contro i 44,37 per 100 000 abitanti del periodo 21/9 - 4/10). Nello stesso periodo, il numero di casi sintomatici è quasi raddoppiato (15.189 casi sintomatici nel periodo 28/9 - 11/10 contro 8.198 casi sintomatici nel periodo 21/9 - 4/10)».
Ci ripetono che il nostro dovere è di evitare assembramenti privati e pubblici, che dobbiamo mettere mascherine e lavare le mani, vero dipende tutto anche da noi, è molto implicata la responsabilità individuale. Ma poi ci sono situazioni nelle quali noi singoli non possiamo decidere: a scuola dobbiamo andare, al lavoro dobbiamo andare, non siamo noi che possiamo decidere in che misura chi può lo fa a distanza, non siamo noi a decidere in quanti possiamo salire sui mezzi pubblici e quanti mezzi abbiamo a disposizione, poi certo tocca anche a noi non dissipare in assembramenti ricreativi l’opportunità di fare il necessario a distanza, è ovvio che se gli studenti universitari che hanno lezioni a distanza vanno a seguirsele in gruppo al bar con wifi o in una casa privata tutto è vanificato. Se all'Asl si forma la fila la subiamo ma non è colpa nostra, dobbiamo fidarci di chi ci dice che i protocolli sono affidabili, ma poi scopriamo che per le palestre non si sono fatti perché il Cts non garantiva sulla sicurezza.
Chi decide deve decidere, non può temporeggiare lasciando a noi singoli anche la responsabilità di ciò che non può dipendere da noi. Anche perché questo rischia di penalizzare le fasce deboli: quelle che non hanno l’opportunità di lavorare da remoto, che vivono in tanti in case piccole e per cui i mezzi pubblici sono la solo alternativa, i pendolari costretti ad ammassarsi nelle ferrovie regionali e i ragazzi che vanno a scuola con le metropolitane e a catena i loro genitori e nonni. Mai siamo stati così dipendenti gli uni dagli altri. Chi deve decidere, a livello locale e nazionale, ha il dovere di fare una scala di priorità: è ovvio che non potendo vivere come se il virus non ci fosse qualche sacrificio è nel conto. Ma soprattutto ha il dovere di non aspettare che siano i numeri scappati di mano a legittimare le decisioni agli occhi dell’opinione pubblica, perché quando questo avviene i danni sono fatti.
La storia ci insegna che è stato un errore il 29 febbraio lanciare lo slogan “Milano non si ferma” e temporeggiare; col senno di poi sappiamo che è stato devastante non agire tempestivamente sui focolai della Val Seriana; che è stato uno sbaglio mandare in estate con le discoteche aperte un messaggio da liberi tutti. Abbiamo il dovere tutti di ricordarlo ora che l’epidemia è ovunque, ma soprattutto che sta prendendo grandi città come Milano e Napoli in cui si muovono milioni di persone non le poche migliaia ci Codogno, Lodi, Bergamo e Cremona e che già tanta sofferenza hanno vissuto. Il direttore sanitario Vittorio De Micheli dell’Ats Milano, ai microfoni di Skytg24, ha ammesso: «Non riusciamo più a tracciare tutti i contagi, non sappiamo esattamente in grossa metropoli la velocità con cui il fenomeno si possa verificare».
Siamo stati i primi in Europa ad affrontare il mostro senza rete, per stessa ammissione dell’Oms lo abbiamo fatto con coraggio e bene mentre i Paesi vicini, che hanno commesso lo sbaglio di non seguire l’esempio, ora stanno peggio di noi avendo visto risalire la curva prima di noi. Ma adesso tocca a noi trarre lezioni dagli errori altrui e non dissipare quel che di buono abbiamo fatto fin qui, come singoli e come decisori. Tocca ricordare tutti che salute ed economia non sono due mondi che possono vivere in bolle separate, non c’è un’economia che prospera mentre l’epidemia galoppa, controllare l’epidemia è il primo passo per tenere in piedi l’economia, diversamente è solo spostare la notte più in là.