Viene dal Brasile, Paese vicino a quella “fine del mondo” da cui è arrivato papa Francesco. È il primo non italiano diventato Superiore generale dei Paolini, congregazione nota in Italia per i suoi libri e le sue riviste come Famiglia Cristiana e Credere. È in sintonia con la “Chiesa in uscita” di Bergoglio e ha come idea-guida il metodo della “sinodalità” anche dentro il suo istituto religioso. Parliamo di don Valdir José de Castro, 60 anni, settimo successore di don Giacomo Alberione, il Fondatore dei Paolini, scomparso esattamente 50 anni fa, il 26 novembre 1971. Proprio con l’occasione di questo importante cinquantenario abbiamo voluto incontrare don Valdir, che ci accoglie nella Casa generalizia di Roma col suo sorriso affabile, oltre che con grande calma e disponibilità pur in mezzo ai diversi impegni che caratterizzano la giornata di un Superiore generale, eletto nel 2015 alla guida della Società San Paolo, congregazione diffusa in 38 nazioni e dedicata a evangelizzare dentro al complesso e affascinante mondo della comunicazione. Ha alle spalle una ricca esperienza maturata in diversi campi: è stato maestro dei novizi, “direttore generale” delle attività apostoliche, superiore della Provincia Argentina-Cile-Perù e poi del Brasile, direttore della Fapcom, la Facoltà di comunicazione dei Paolini a San Paolo del Brasile.
Come ha conosciuto i Paolini? Che cosa l’ha attirata di questo gruppo di religiosi?
«La chiamata alla vita religiosa e sacerdotale la sentivo già da piccolo, ma non sapevo dove orientarmi. Finché non ho conosciuto, a 17 anni, un Paolino originario della mia città, in occasione della sua ordinazione e, attraverso di lui, i Paolini. Mi ha attirato questo stile di vita religiosa che ha per missione la comunicazione, una forma che sentivo nuova, differente. Quel sacerdote mi ha portato alla “Città Paolina” a San Paolo del Brasile: quando sono entrato nella tipografia, mi sono sentito a casa! Ho sentito il profumo dei libri, le Bibbie stampate. Senza ancora conoscere in profondità, ho capito subito: era lì che dovevo rimanere».
I Paolini sono una congregazione di “editori”, dedita all’evangelizzazione con “i mezzi della comunicazione”. Ma editori a servizio di chi? A chi si ispirano? Don Alberione ripeteva che, se san Paolo tornasse oggi, farebbe il giornalista...
«Essere editori per noi è portare la presenza di Dio nel mondo per mezzo della comunicazione, con le risorse e i linguaggi della comunicazione. L’espressione “san Paolo giornalista” forse la possiamo intendere nel senso di uomo dell’attualità: Paolo ha vissuto con i piedi nella storia. Voleva evangelizzare la gente della sua epoca. Scriveva le sue lettere per rispondere ai vari problemi concreti che le comunità vivevano, dando risposte alla luce del Vangelo di Gesù morto e risorto. Don Alberione si è ispirato molto a questo aspetto di Paolo. Non a caso ha dato inizio alla congregazione nel 1914, un anno dopo essere diventato direttore, ancora giovane prete, del giornale della sua diocesi, Gazzetta d’Alba. Rispondere alle necessità della gente di oggi con i mezzi di oggi, arrivando con i linguaggi della comunicazione che la gente capisce: ecco l’attualità del carisma paolino».
La Chiesa ha recepito la necessità di “abitare” l’ambiente della comunicazione?
«La Chiesa ha la consapevolezza di dover evangelizzare e comunicare: se non comunichiamo dentro le tecnologie che oggi si utilizzano, il Vangelo non può arrivare alle persone. Perciò abbiamo bisogno di capire il modo in cui la comunicazione si evolve. Il concilio Vaticano II, con il decreto Inter mirifica, ha acquisito consapevolezza della necessità dei mezzi di comunicazione. Era la visione di don Alberione. Paolo VI, molto vicino a noi Paolini, ha iniziato le Giornate mondiali delle Comunicazioni Sociali. Giovanni Paolo II ha parlato della comunicazione come cultura: occorre integrare il messaggio in questa nuova cultura creata dalla comunicazione moderna. Con i suoi messaggi per la giornata della comunicazione Benedetto XVI ha detto una cosa importante: siamo chiamati a portare uno stile cristiano dentro la rete. Non solo esserci, ma esserci da cristiani. Oggi papa Francesco insiste soprattutto sulla comunicazione interpersonale, sulla comunicazione come contatto umano, che i mezzi e la rete non possono sostituire. Internet deve promuovere l’incontro delle persone e una cultura dell’incontro. In questo senso i Paolini sono chiamati a essere ministri di comunione nella Chiesa, a lavorare per l’unità per mezzo del dialogo e del rapporto umano».
Lei è il settimo successore di un fondatore, don Giacomo Alberione, morto nel 1971. Cosa ritiene significativo della sua eredità per l’oggi?
«La prima cosa che ci motiva come Paolini è tornare alla vita del Fondatore: al suo amore a Gesù e alla Chiesa. Sempre torno con la mente a quell’esperienza di “luce” che egli ebbe davanti a Gesù eucaristico nella notte di passaggio del secolo, tra il 1900 e 1901. È un sogno che nasce lì, dalla fede. Questo mi ha sempre motivato: sognare, nel senso di progettarsi per fare qualcosa ma lasciando tutto nelle mani del Signore. Il giovane Alberione risponde all’appello di Gesù che sente quella notte davanti al tabernacolo, entra nel cammino della Chiesa. Sogna di fare qualcosa per gli altri: portare Gesù, il Vangelo. Non ha subito chiaro cosa fare, ma ha fede. Da questo sogno è nata non solo la Società San Paolo ma un’intera famiglia religiosa, la Famiglia Paolina, che coinvolge 10 tra congregazioni, istituti secolari e un’associazione laicale».
Quali altri aspetti del Fondatore la toccano in particolare?
«Mi colpisce la sua capacità di leggere i segni dei tempi, anzi di andare oltre il tempo che lui viveva. È qualcosa che ammiro: pensare al futuro ma con i piedi nel presente. Il suo scopo è arrivare a tutti, utilizzando i mezzi che abbiamo, quelli più moderni, quelli che fanno sì che la Parola arrivi alla gente, agli uomini di oggi, come e dove sono, con i loro problemi, nelle loro situazioni».
Lei è il primo Superiore generale “venuto dalla fine del mondo”, per parafrasare papa Francesco. Viene dal Brasile, una Chiesa giovane: come vede la Chiesa italiana?
«Dell’Europa vedo anzitutto gli aspetti positivi: ha dato molti santi alla Chiesa. In America latina il popolo di Dio è stato molto influenzato dalla spiritualità di tanti santi europei, che hanno aiutato tanta gente a vivere la fede: sant’Antonio di Padova, san Francesco d’Assisi, santa Rita da Cascia. Personalmente ero molto attirato da santa Rita, dalla sua storia di sofferenza e di pazienza. Contemporaneamente, mi sembra di vedere oggi, in Europa, una Chiesa un po’ stanca, abitudinaria, con poca creatività e apertura (con tante eccezioni ovviamente), che vive una certa fatica a evangelizzare. Mi sembra inoltre che i vescovi europei facciano un po’ fatica a capire il senso della sinodalità. In America latina abbiamo già da decenni una tradizione di sinodalità: le Conferenze latino-americane di Medellìn, Puebla, Santo Domingo, Aparecida… Quando papa Francesco parla di sinodalità, parla molto della sua esperienza radicata in America latina. In Europa si può forse fare di più: occorre coinvolgere di più il popolo di Dio».
Lei è stato superiore provinciale dell’Argentina e ha conosciuto Bergoglio quando era arcivescovo. Che ricordo ne ha?
«Quando ero in Argentina sapevo del suo stile di vita molto semplice: ricordo che da cardinale prendeva i mezzi pubblici. Non era difficile incontrarlo lì o vederlo camminare in centro città. Forse non è una cosa straordinaria, ma neanche così normale! Era già allora molto dedicato ai poveri, motivava i sacerdoti ad andare nelle periferie, già parlava di “periferie esistenziali”. Oltre ad annunciare il Vangelo, denunciava l’ingiustizia sociale e richiamava l’attenzione del Governo sui poveri. Lo ricordo sempre molto accogliente, “attenzioso”, riconoscente verso la Famiglia Paolina per il suo apostolato».
I Paolini vivono spesso “nascosti” dietro le loro attività editoriali. Come vede oggi la figura del Paolino? In che modo essi possono essere “Chiesa in uscita” oggi?
«Il modello del Paolino che lavora nel “nascondimento”, in tipografia o in redazione, era quello degli inizi della Congregazione. Oggi vedo il Paolino come uomo di comunicazione, di relazione, anche quando è in redazione. È necessario, nella misura in cui entriamo nel mondo comunicativo dominato dalla rete, essere sempre più persone di relazione, di comunicazione, di interazione con gli altri. Essere “Chiesa in uscita” per noi oggi significa concretamente avere contatto con la gente, scendere e conoscere le realtà in cui siamo. Per questo, ad esempio, insisto sull’importanza delle nostre librerie come centri di evangelizzazione e di cultura, non solo dei punti vendita. Sono luoghi che ci fanno “uscire” e incontrare la gente, con eventi, presentazioni, momenti di riflessione, concerti... Il Paolino deve essere in comunicazione con la vita di fede del popolo, con la vita economica, politica, culturale, sociale. Altrimenti produrrà dei contenuti lontani dalla realtà e dall’esperienza della gente, venendo meno al suo compito di apostolo comunicatore».