L'Italia è a un bivio: «Continuare a perseguire un modello di sviluppo non più sostenibile, del quale la crisi ha messo a nudo tutti i limiti, o attuare cambiamenti radicali per affermare una nuova idea di progresso che ricongiunga il benessere economico all’interesse generale, alla qualità della vita, alla sostenibilità». Lo si legge nel Rapporto annuale Federculture 2012, edito da 24Ore cultura, presentato questa mattina al Maxxi di Roma. Una relazione ricca di dati, che ci mette di fronte a una doppia verità: nonostante la crisi, la spesa per la cultura nel 2011 è aumentata, mentre continua a menare fendenti la mannaia che, da tempo, decurta i fondi. Di qui la necessità di una scelta, ben riassunta nel titolo del rapporto: "Cultura e sviluppo. La scelta per salvare l'Italia".
Analizziamo i dati di Federculture (federazione che raggruppa enti e soggetti pubblici e privati che offrono servizi culturali). Le famiglie italiane l'anno scorso, in un contesto di fatto già recessivo, hanno speso per ricreazione e cultura 70,9 miliardi di euro, impegnando il 7,4 per cento della loro spesa annua complessiva. Un valore da tempo in crescita, anche nella recente congiuntura negativa: tra il 2008 e il 2011 l'incremento è stato del 7,2 per cento, mentre nel solo anno appena concluso ha segnato un +2,6 per cento. Nell'arco dell'ultimo decennio, 2001-2011, la spesa per ricreazione e cultura è aumentata addirittura del 26,3 per cento. Quanto siginficativa sia questa cifra, risulta dal fatto che, nello stesso periodo, la spesa per vestiario e calzature è cresciuta dell'1,3 per cento e quella per gli alimentari dell'1,2 per cento.
Di pari passo, sempre considerato l'ultimo decennio, si è intensificata la fruizione di intrattenimenti culturali: +17,7 per cento per il teatro, +11 per cento per concerti di musica classica, +6 per cento per visite ai siti archeologici e monumenti. E sebbene nell'ultimo anno la tendenza alla crescita si sia invertita, segnando un piccolo regresso, non c'è dubbio che il comparto si mostri vivo e dinamico. Lo dimostrano altri indicatori relativi ai siti culturali statali. I visitatori nel 2011 sono stati oltre 40 milioni (+7,5 per cento), per un introito lordo di 110,4 milioni di euro (+5,7 per cento). Un trend positivo senza cedimenti negli ultimi 15 anni. In questo periodo gli ingressi nei musei e nelle aree archeologiche statali sono passati dai 25 milioni del 1996 ai 40 di oggi (+60,2 per cento).
La domanda è molto concentrata, e questo non è un dato positivo, perché significa che buona parte del nostro patrimonio, diffuso su tutto il territorio, è ancora sconosciuto o poco valorizzato. I 10 siti culturali più frequentati raccolgono da soli ben il 36 per cento dei visitatori e additrittura il 75 per cento degli introiti totali. Venendo agli eventi culturali, le dieci esposizioni di maggior successo del 2011 hanno registrato circa 2,5 milioni di visitatori, il 14 per cento in più del 2010. La crescita è diffusa: +8,5 per cento per la Settimana della cultura, +4,2 per il Festival internazionale dei cinema di Roma, +10 per cento per il Festivaletteratura di Mantova...
A fronte di una domanda, un interesse, una spesa e un consumo che, come si è visto, sono in crescita costante da anni, il finanziamento pubblico al settore ha l'andamento di un crollo in picchiata. Negli ultimi dieci anni il bilancio del ministero ai beni culturali è diminuito del 36,4 per cento, arrivando nel 2011 a 1.425 milioni di euro, contro i 2.120 del 2001. In rapporto al Bilancio dello Stato lo stanziamento per la cultura si ferma llo 0,19 per cento, appena lo 0,11 per cento del Pil. Per cogliere la portata del dato, non solo economica ma anche culturale e simbolica, si pensi che dopo la guerra, quando il Paese andava ricostruito e c'era bisogno di inventarsi il futuro, lo Stato destinava alla cultura lo 0,8 della spesa totale (nel 1955), il quadruplo di oggi. Identica dinamica per il Fondo unico per lo spettacolo, che dai 501 milioni di euro del 2002 è stato ridotto ai 411 milioni di euro del 2012 (-17,9 per cento).
Non hanno sopperito gli enti locali, in particolare i Comuni, che negli ultimi anni erano stati protagonisti delle politiche culturali con una spesa pari al 3,3 per cento dei loro bilanci. Una ricerca di Federculture, contenuta nel Rapporto, su un campione di 15 grandi Comuni, evidenzia che tra il 2008 e il 2011 la spesa culturale delle amministrazioni comunali è diminuita mediamente del 35 per cento. L'incidenza della voce cultura sui bilanci comunali è scesa al 2,6 per cento.
Non è andata meglio per le sponsorizzazioni in generale: dal 2008 si calcola una diminuzione del 25,8 per cento; per il 2012 si prevede un'ulteriore contrazione del 5 per cento. Ancora peggio se esaminiamo le sponsorizzazioni per la cultura: nel 2011 sono state pari a 166 milioni di euro, l'8,3 per cento in meno rispetto al 2010 (-38,3 per cento dal 2008 al 2011). E se restano invariate le erogazioni da parte delle Fondazioni bancarie, il privato ha emulato il cattivo esempio del pubblico: nel quadriennio 2008-2011i contributi dei privati si sono ridotti del 40 per cento, mentre ci si è concentrati fortemente sull'aumento delle entrate provenienti da attività proprie (+70 per cento), generando un notevole autofinanziamento (dal 47,8 per cento al 64,7 per cento nel quadriennio considerato).
Che la cultura sia vittima di un colossale abbaglio, per cui è considerata un costo e non quello che realmente è, un'opportunità e una risorsa, la conferma il valore del brand del nostro patrimonio (arte, paesaggio, beni). Nel 2001 l'Italia è ancora al primo posto nella classifica del Country Brand Index per l'attività culturale; di contro, siamo solo decimi, pur in risalita, nella classifica sulla capacità di attrazione dell'immagine-Paese. Insomma, siamo, agli occhi del mondo, un diamante prezioso, ma ci impegniamo... a tenerlo ben nascosto. Resta forte, secondo i dati Unctad, l'export di beni creativi italiani, del valore di oltre 23 miliardi di dollari, in crescita, pari al 17 per cento dell'export europeo e al 6 per cento di quello mondiale. Siamo il quarto Paese al mondo per esportazione di beni creativi, il primo tra le economie del G8 per il design.
«La cultura è, insomma, una grande industria capace di produrre beni e servizi made in Italy che originano anzitutto da un’esperienza che si sviluppa in un contesto unico e originale», afferma nel Rapporto Roberto Grossi, presidente di Federculture. «Il settore delle industrie culturali e creative, oggi stimato valere il 4,5 per cento del Pil europeo e il 3,8 per cento degli occupati totali, sarà nei prossimi anni in grande espansione. Ma mentre gli altri Paesi, nostri concorrenti, hanno già fatto delle scelte, noi non abbiamo ancora cominciato a discutere».
Il Rapporto Federculture lancia anche un drammatico - a nostro avviso - allarme riguardo alla formazione delle nuove generazioni: il nostro sistema formativo sembra perdere capacità di attrazione nei confronti dei giovani. Dall'anno accademico 2003-4 a quello 2009-10 gli iscritti all'Accademia nazionale di arte e di danza sono diminuiti rispettivamente del 7,5 e del 23 per cento. Nell'ultimo anno sono crollate le immatricolazioni nelle università italiane (dal 70 per cento dei diplomati di 10 anni fa al 60 per cento). Nelle classifiche internazionali sui migliori atenei, la prima italiana, Bologna, figura solo al 183° posto. Siamo tra gli ultimi in Europa per spesa nell'istruzione pubblica: investiamo il 4,8 per cento del Pil, contro l'8 della Danimarca, il 6,9 dell'Inghilterra, il 6,2 della Francia... Il 18,8 per cento dei giovani italiani abbandona la scuola prima del diploma. Non si ferma l'esodo intellettuale, i famosi cervelli in fuga...
L'Italia è dunque a un bivio. Sottoscriviamo le affermazioni conclusive di Roberto Grossi: «Il tema della formazione è cruciale. L’istruzione è una chiave dello sviluppo, anche di quello economico. Serve una rivoluzione culturale a partire dalla diffusione della conoscenza e dei valori della nostra tradizione per superare il naufragio delle idee e delle risorse creative. Ma soprattutto per risalire la china e affermare un modello di sviluppo che faccia stare meglio gli italiani, premi la qualità e il lavoro, ridia l’orgoglio alla nazione rafforzando il senso d’appartenenza dei cittadini. Per sfuggire alla morsa che attanaglia le imprese, deprime l’innovazione e la creatività, ci allontana dall’estetica e dall’etica. Quella morsa dell’incultura e dell’incuria che pone al centro della scena clientele e nepotismi, comitati di affari che riempiono di cemento abusivo i luoghi e i paesaggi più belli, affermando così la dittatura dell’indifferenza e del brutto. Come pensiamo, dunque, di rimanere nel G8 se non puntiamo sui settori più forti della nostra competitività internazionale come appunto cultura, creatività e innovazione? Come possiamo ridare slancio alle imprese e fiducia ai cittadini se non investiamo sulla conoscenza, sulla diffusione dei saperi, sui valori della nostra identità? Serve una strategia e interventi concreti per far crescere un settore che oggi rappresenta il 5 per cento del Pil e in pochi anni potrebbe triplicare il proprio valore. Ciò significherebbe aprire un nuovo orizzonte di crescita al Paese, ridare benessere ai cittadini, migliorare la qualità della vita nelle città, generare nuova ricchezza e occupazione, dare una speranza di futuro ai giovani».