La crisi finanziaria non si è abbattuta sul corpo sociale del Paese come uno tsunami, ma ha selezionato le sue vittime con estrema precisione. E tra queste ci sono sicuramente i lavoratori stranieri che hanno registrato una flessione del tasso di occupazione pari 2,5%, il doppio rispetto alla media italiana. È quanto emerge dall’ultimo Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, che la Commissione di indagine sull’esclusione sociale (Cies) ha presentato l’altra settimana a Roma, a pochi giorni dalla scadenza del suo mandato.
“Nell’ultimo anno la crisi ha colpito soprattutto gli immigrati già integrati o in via di integrazione”, spiega Giovanni Battista Sgritta, docente di sociologia all’Università La Sapienza di Roma e membro della Commissione. “Ovvero tutti quelli che avevano il permesso di soggiorno, un posto di lavoro con contratto a tempo determinato o indeterminato, erano riusciti a sistemare la propria condizione abitativa attraverso l’accensione di un mutuo o l’affitto di una abitazione, aveva ottenuto il ricongiungimento familiare e puntavano sull’istruzione dei propri figli”.
Insomma, la crisi si è abbattuta su chi era riuscito ad assicurarsi una certa tranquillità, mentre “quelli che niente avevano, niente hanno perso”.
È questa la situazione degli immigrati sul territorio romano, al centro di una delle tre indagini sul campo presenti nel Rapporto. “A Roma gli stranieri in condizione di marginalità estrema sono stati i meno colpiti, la crisi gli è passata addosso senza scalfirli”, prosegue Sgritta. “Gli immigrati sono più a rischio di cadere e restare in condizioni di marginalizzazione ed esclusione. È evidente che solo un intervento tempestivo da parte dei servizi sociali avrebbe potuto evitare che venissero a trovarsi in tale situazione”.
Anche nella Capitale, tuttavia, si è registrato un aumento della percentuale degli immigrati sul totale dei senza lavoro: secondo il Rapporto si è passati dal 9,3% del 2007 al 13,5% del 2008 fino 16,6% del 2009. E questo nonostante i bassi salari e la bassa qualificazione delle mansioni avessero in un primo tempo risparmiato i lavoratori stranieri. Basti pensare che ben il 45,9% degli immigrati laureati svolge impieghi di tipo operaio o non qualificato a fronte dell’1% dei loro colleghi italiani. Mentre la retribuzione media di uno straniero è di 890 euro mensile contro i 1.345 euro degli autoctoni.
Estremamente pesanti gli effetti della crisi nelle regioni del Nord in prima linea, negli scorsi anni, nel processo di integrazione dei lavoratori stranieri e delle loro famiglie. A Torino, si legge nel Rapporto, nei primi mesi del 2010 ben 37 lavoratori su 100 iscritti nelle liste di mobilità sono immigrati. Inoltre, nel corso del 2009 le procedure di assunzione registrate presso i Centri per l’impiego sono calate del 16,9% per quanto riguarda gli italiani e del 20,5% per gli immigrati.
E la flessione della domanda di lavoro straniera è più forte laddove le attività industriali assumono maggiore rilevanza. A Courgné, per esempio, gli avviamenti professionali dei lavoratori provenienti dall’estero sono diminuiti del 54% a causa della grave crisi del distretto dello stampaggio. Non tutti però hanno risentito della crisi: le assunzioni femminili, legate soprattutto al lavoro di cura, sono aumentate del 7% e anche i cinesi non solo non hanno perso posti di lavoro, ma hanno visto addirittura aumentare le occasioni di trovare un impiego.
La recessione, infine, non risparmia il Sud. L’ultima indagine territoriale presentata dal Rapporto affronta la situazione di Napoli e della Campania in generale. Qui il problema è non solo (o non tanto) l’effetto sull’occupazione, quanto il mutamento dei flussi migratori che spinge sempre più immigrati dalle regioni del Nord al Meridione. A determinare questo “sommerso spostamento” verso il Sud è il “fallimento del progetto migratorio” spiega il Rapporto.
In altre parole, nel Mezzogiorno la vita costa meno, le relazioni sono più informali e i controlli per chi, non avendo più un lavoro, non ha più il permesso di soggiorno sono meno serrati. Ma, avverte la Commissione di indagine sull’esclusione sociale, questo spostamento rischia di produrre una “concorrenza verso il basso” con le fasce più povere (o impoverite) della popolazione italiana. Il pericolo, dunque, è quello di trovarsi ancora una volta di fronte a conflitti come quelli sfociati nei tristi fatti di Rosarno e di determinare forme di esclusione sociale dal “carattere difficilmente reversibile”.