Meidyatama Suryodiningrat.
Se in Pakistan Asia Bibi è detenuta e rischia la pena di morte per blasfemia e i fedeli che vanno a Messa rischiano ogni domenica la vita, anche in Indonesia si può finire dietro le sbarre per lo stesso motivo. Spesso sottovalutato, il reato è in vigore anche nello Stato musulmano più popoloso del mondo. La scorsa settimana, infatti, Meidyatama Suryodiningrat, caporedattore del maggior quotidiano indonesiano in lingua inglese, il Jakarta Post, è stato indagato per aver autorizzato la pubblicazione, il 3 luglio, di una vignetta satirica verso l’Isis, ritenuta «offensiva dell’Islam»; sarà ascoltato la prossima settimana e rischia fino a cinque anni di carcere.
Nella vignetta, un militante del movimento terrorista, presente in Siria e in Iraq ma che fa propaganda anche nel Sud-Est asiatico, sventola una bandiera nera contenente l’immagine di un teschio e una scritta in arabo su Allah, sacra per i musulmani. Dopo le prime proteste, il giornale ha diffuso una nota di «scuse sincere», pubblicata con ampio risalto, in cui «si rammarica per l’errore di valutazione commesso, ma non aveva alcuna intenzione di offendere il sentimento religioso», ma piuttosto di «criticare l’uso di simboli religiosi per atti di violenza». Nonostante ciò, il Corpo dei predicatori islamici ha sporto denuncia.
Solo il mese scorso, Amnesty International aveva chiesto al nuovo governo di mettere fine all’utilizzo di uno strumento legale che consente ai gruppi islamisti di creare un clima di intolleranza e pressione crescente sulle minoranze e sugli stessi musulmani moderati. «I casi di blasfemia – spiegano dall’Ong – avvengono soprattutto a livello locale, dove politici, gruppi religiosi radicali e forze di sicurezza collaborano nel prendere di mira le minoranze. Un pettegolezzo o una voce è talvolta sufficiente a far accusare di blasfemia; molte persone vengono molestate e attaccate da gruppi radicali prima del loro arresto e portati in tribunale in un’atmosfera intimidatoria. Anche se le condanne sono spesso giustificate dal voler “mantenere l’ordine pubblico”, l’aumento delle persecuzioni per blasfemia va visto in un più ampio contesto di deterioramento della libertà religiosa».
Negli ultimi dieci anni, Amnesty ha censito 106 casi di individui a cui è stato applicato il reato, magari «per niente di più che aver fatto un fischio durante una preghiera, aver scritto le proprie opinioni su Facebook o aver detto di aver ricevuto una “rivelazione da Dio”». Tra di loro, Rusgiani, una donna cristiana dell’isola di Bali (a maggioranza indù) condannata a 14 mesi per aver chiamato «sporche e disgustose» le offerte induiste, o Tajul Muluk, un leader sciita di Giava che sta scontando quattro anni di carcere perché accusato di «insegnamenti devianti» dai capi sunniti dell’isola di Madura, dove dirigeva una scuola.
In Indonesia, il reato di blasfemia risale al 1965, periodo di tensioni tra comunisti e islamici, quando l’allora presidente Sukarno, per guadagnarsi il consenso dei musulmani, emise un decreto che non solo proibiva le offese alle religioni, ma metteva fuori legge tutte le fedi non incluse nelle cinque ufficialmente riconosciute (islam, protestantesimo, cattolicesimo, induismo e buddismo, ai quali è stato più tardi aggiunto il confucianesimo). La legge era rivolta innanzitutto contro la setta islamica eterodossa Achmadiyya, presente nell’arcipelago dal 1920, e contro i cosiddetti movimenti della vita interiore, comunità mistiche molto popolari tra i giavanesi, che i leader musulmani consideravano una minaccia, ma venne poi utilizzata contro tutte le minoranze. La norma implica anche che chi professa una fede indigena, come la religione Marapu dell’Isola di Sumba, non possa sposarsi legalmente, con la conseguenza che i figli non siano considerati eredi legali.
In particolare, nei dieci anni dell’ex presidente Susilo Bambang Yudhoyono (2004-2014), le condanne in base alla legge del 1965 sono aumentate. Nel 2010, la Commissione nazionale dei diritti umani e alcune associazioni indonesiane avevano presentato un ricorso per l’abolizione del reato, con l’appoggio della Conferenza episcopale indonesiana, del Consiglio delle Chiese protestanti e di autorevoli intellettuali islamici. Al contrario, alcune associazioni islamiche, specialmente quelle più radicali, insieme ad esponenti indù, buddisti e confuciani, si opposero alla revisione e ottennero la conferma della legge da parte della Corte Costituzionale.