Da Gerusalemme
A fare la fila per entrare nel Santo
Sepolcro ci sono solo stranieri.
E se durante il resto
dell’anno è difficile per un cristiano
palestinese accedere ai
luoghi santi, lo diventa ancor
di più in periodo pasquale. La
polizia israeliana ha deciso
di “blindare” i luoghi santi per motivi
di sicurezza.
Si tratta di «un’ulteriore
umiliazione per noi, proprio durante le
nostre feste religiose», commentano i
palestinesi.
La domenica delle Palme, vigilia
della Pasqua ebraica, è stata macchiata
dagli scontri nella Città vecchia
di Gerusalemme e in giro non c’è molta
voglia di parlare.
Non sono più tanti i cristiani nella
terra di Gesù: appena il 4 per cento in
Israele e Palestina, il 3 per cento in Giordania,
meno del 10 per cento in Siria e
oltre il 40 in Libano dove cresce il numero
dei profughi siriani. Scappano dalla
guerra, ma anche dalla povertà, dalle
asprezze di una vita che, per i cristiani,
si va facendo sempre più faticosa.
«Anche se c’è da dire che quella dei palestinesi cristiani è la stessa difficoltà che vivono i palestinesi musulmani», commenta don Raed Abusahlia, parroco a Ramallah e direttore generale di Caritas Gerusalemme. «Quello che preoccupa di più non è però l’emigrazione», aggiunge il gesuita padre David Neuhaus, vicario patriarcale per i cattolici di lingua ebraica in Israele e presidente della Commissione per la comunicazione sociale, istituita per preparare il prossimo viaggio di papa Francesco: «Non sono più tanti quelli che lasciano la Terra Santa. Ci preoccupano, invece, coloro che, pur rimanendo qui, abbandonano la fede, non praticano più, non si considerano più cristiani».
Emigrazione e secolarizzazione
Il processo
di secolarizzazione avanza e solo
il pellegrino che arriva da fuori si stupisce
del negozio di tatuaggi e piercing
appena al di là del New gate, la
porta che si apre sul quartiere cristiano,
o di quello con le slot machine che
si insinua subito dopo il collegio dei
frati cristiani.
Il cuore della Gerusalemme
vecchia sta cambiando, ma i
più alzano le spalle senza badarci troppo.
«È questo il vero fronte su cui dobbiamo
impegnarci come Chiesa. Sarebbe
un paradosso continuare a perdere
la fede proprio qui dove Cristo è nato
», insiste padre Neuhaus.
Ma è difficile continuare a essere cristiani
in una terra che diventa, di giorno
in giorno, meno ospitale. Con il processo
di pace in stallo le condizioni di vita
dei palestinesi peggiorano e si lotta
per la sopravvivenza. «Non parliamo però
di persecuzioni», aggiunge da Amman
Wael Suleiman, direttore di Caritas
Giordania. «Così facendo facciamo
soltanto il gioco di chi vuole colpire il
dialogo e forzare verso gli estremismi».
Gli fa eco un documento appena
pubblicato a Gerusalemme dalla Commissione
Giustizia e pace e dall’Assemblea
degli Ordinari cattolici di Terra Santa:
«La ripetizione del termine “persecuzione”
(per designare unicamente le sofferenze
subite da cristiani per mano di
criminali che si dichiarano musulmani),
in certi contesti serve agli estremisti,
tanto in casa nostra quanto all’estero, il
cui scopo è proprio quello di seminare
l’odio e i pregiudizi e di eccitare i popoli
e le religioni gli uni contro gli altri».
Nel documento si legge ancora: «In
nome della verità, noi dobbiamo sottolineare
che i cristiani non sono le sole vittime
di questa violenza e di questa ferocia.
I musulmani laici, tutti quelli indicati
come “eretici”, “scismatici” o semplicemente
“non allineati” sono parimenti attaccati
e uccisi nel medesimo caos».
È sul dialogo che la Chiesa in Terra
Santa punta con tutte le sue forze, aspettandosi
molto anche da fuori. «Bisogna
venire e vedere», spiega don Raed, «conoscere
le comunità cristiane, incoraggiare
i progetti ecumenici e interreligiosi,
cercare di capire senza pregiudizi. E
non si può capire senza incontrarci». Il
direttore della Caritas chiama a un gemellaggio:
«Le parrocchie in tutta la Palestina
sono 15, 17 quelle in Israele, 45 in
Giordania. Ogni diocesi italiana potrebbe
collegarsi con una di loro, cominciando
con quelle più povere che si estendono
tra Gaza e Gerusalemme, proponendo
una colletta, una domenica all’anno, e
un pellegrinaggio in loco. Solo così può
crescere la consapevolezza di ciò che accade
qui e si possono rafforzare le comunità
cristiane. Lo sappiamo che anche in
Italia si vive una difficile crisi economica.
Ma vi chiediamo l’obolo della vedova,
quello che impegna il cuore e che, proprio
per questo, può dare più frutti».