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venerdì 13 settembre 2024
 
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Cristiani, il calvario continua

18/04/2014  L'ultima vittima è il gesuita Frans van der Lugt, ucciso in Siria. Ma anche in tanti paesi dell'Asia e dell'Africa molti fedeli rischiano ogni giorno la vita. I problemi della Terra Santa. C'è chi resiste alle violenze. Con il dialogo e con il perdono.

Da Gerusalemme  
A fare la fila per entrare nel Santo Sepolcro ci sono solo stranieri. E se durante il resto dell’anno è difficile per un cristiano palestinese accedere ai luoghi santi, lo diventa ancor di più in periodo pasquale. La polizia israeliana ha deciso di “blindare” i luoghi santi per motivi di sicurezza.
Si tratta di «un’ulteriore umiliazione per noi, proprio durante le nostre feste religiose», commentano i palestinesi.
La domenica delle Palme, vigilia della Pasqua ebraica, è stata macchiata dagli scontri nella Città vecchia di Gerusalemme e in giro non c’è molta voglia di parlare. Non sono più tanti i cristiani nella terra di Gesù: appena il 4 per cento in Israele e Palestina, il 3 per cento in Giordania, meno del 10 per cento in Siria e oltre il 40 in Libano dove cresce il numero dei profughi siriani. Scappano dalla guerra, ma anche dalla povertà, dalle asprezze di una vita che, per i cristiani, si va facendo sempre più faticosa.

«Anche se c’è da dire che quella dei palestinesi cristiani è la stessa difficoltà che vivono i palestinesi musulmani», commenta don Raed Abusahlia, parroco a Ramallah e direttore generale di Caritas Gerusalemme. «Quello che preoccupa di più non è però l’emigrazione», aggiunge il gesuita padre David Neuhaus, vicario patriarcale per i cattolici di lingua ebraica in Israele e presidente della Commissione per la comunicazione sociale, istituita per preparare il prossimo viaggio di papa Francesco: «Non sono più tanti quelli che lasciano la Terra Santa. Ci preoccupano, invece, coloro che, pur rimanendo qui, abbandonano la fede, non praticano più, non si considerano più cristiani».

Emigrazione e secolarizzazione

  

Il processo di secolarizzazione avanza e solo il pellegrino che arriva da fuori si stupisce del negozio di tatuaggi e piercing appena al di là del New gate, la porta che si apre sul quartiere cristiano, o di quello con le slot machine che si insinua subito dopo il collegio dei frati cristiani.
Il cuore della Gerusalemme vecchia sta cambiando, ma i più alzano le spalle senza badarci troppo. «È questo il vero fronte su cui dobbiamo impegnarci come Chiesa. Sarebbe un paradosso continuare a perdere la fede proprio qui dove Cristo è nato », insiste padre Neuhaus. Ma è difficile continuare a essere cristiani in una terra che diventa, di giorno in giorno, meno ospitale. Con il processo di pace in stallo le condizioni di vita dei palestinesi peggiorano e si lotta per la sopravvivenza. «Non parliamo però di persecuzioni», aggiunge da Amman Wael Suleiman, direttore di Caritas Giordania. «Così facendo facciamo soltanto il gioco di chi vuole colpire il dialogo e forzare verso gli estremismi».

Gli fa eco un documento appena pubblicato a Gerusalemme dalla Commissione Giustizia e pace e dall’Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa: «La ripetizione del termine “persecuzione” (per designare unicamente le sofferenze subite da cristiani per mano di criminali che si dichiarano musulmani), in certi contesti serve agli estremisti, tanto in casa nostra quanto all’estero, il cui scopo è proprio quello di seminare l’odio e i pregiudizi e di eccitare i popoli e le religioni gli uni contro gli altri». Nel documento si legge ancora: «In nome della verità, noi dobbiamo sottolineare che i cristiani non sono le sole vittime di questa violenza e di questa ferocia. I musulmani laici, tutti quelli indicati come “eretici”, “scismatici” o semplicemente “non allineati” sono parimenti attaccati e uccisi nel medesimo caos».

È sul dialogo che la Chiesa in Terra Santa punta con tutte le sue forze, aspettandosi molto anche da fuori. «Bisogna venire e vedere», spiega don Raed, «conoscere le comunità cristiane, incoraggiare i progetti ecumenici e interreligiosi, cercare di capire senza pregiudizi. E non si può capire senza incontrarci». Il direttore della Caritas chiama a un gemellaggio: «Le parrocchie in tutta la Palestina sono 15, 17 quelle in Israele, 45 in Giordania. Ogni diocesi italiana potrebbe collegarsi con una di loro, cominciando con quelle più povere che si estendono tra Gaza e Gerusalemme, proponendo una colletta, una domenica all’anno, e un pellegrinaggio in loco. Solo così può crescere la consapevolezza di ciò che accade qui e si possono rafforzare le comunità cristiane. Lo sappiamo che anche in Italia si vive una difficile crisi economica. Ma vi chiediamo l’obolo della vedova, quello che impegna il cuore e che, proprio per questo, può dare più frutti».

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